UN PROCESSO PROPRIO SINGOLARE, QUELLO ALL’EX PM DAVIGO
di Giuseppe Gullo
Qualche giorno fa Piercamillo Davigo , su sua richiesta, si è sottoposto per oltre tre ore a esame nel processo che si svolge davanti al Tribunale di Brescia nel quale è imputato di rivelazione di segreto d’ufficio. L’ha fatto, com’era prevedibile ma non scontato, con grande sicumera facendo pesare tutta l’autorevolezza che gli deriva dall’essere l’uomo simbolo sopravvissuto del pool mani pulite dopo la morte di Borrelli e D’Ambrosio e la scomparsa dalla scena pubblica di Antonio Di Pietro. È così avvenuto che l’imputato abbia espresso una serie di giudizi su personaggi eccellenti, da Greco che ha definito “superficiale” e impegnato ad occuparsi di nomine e promozioni di alti ufficiali della finanza, all’Avvocato Generale dello Stato di Milano che reggeva la sede vacante di quella Procura Generale del quale ha riferito un “incidente” professionale che aveva suscitato l’ilarità della Corte d’Appello, alla Boccassini della quale ha rivendicato l’amicizia e alla quale ha attribuito giudizi lusinghieri su Storari, a Jelo che ha definito incorruttibile, a Ermini ,Vice Presidente del CSM, del quale ha riferito tra l’altro la consapevolezza di considerarsi un avvocato di provincia al quale sembravano ostici problemi di interpretazione di norme e regolamenti.
Fa un po’ specie sentire un imputato dare giudizi così trancianti; ma non si tratta di un comune imputato, né di un processo “normale”. Non è questo tuttavia ciò che ha impressionato di più. Davigo ha affermato in modo perentorio e con assoluta certezza che si era trovato davanti ad una situazione illegale che gli era stata riferita da Storari e cioè la mancata iscrizione come indagato quantomeno di Amara e la conseguente inesistenza di un fascicolo e di un procedimento penale, e di avere ritenuto di dovere intervenire come componente del CSM per porre fine all’illegalità. Non solo. Ebbe la precisa sensazione che fosse sotto attacco l’intero ordine giudiziario posto che della lista della presunta loggia facevano parte due ex Primi Presidenti e un ex Procuratore Generale della Cassazione oltre che ex Presidenti di Tribunale, Procuratori Generali e della Repubblica. L’ha fatto, ha detto, per l’adempimento di un obbligo conseguente alla funzione ricoperta e ha concluso chiedendo al PM come si sarebbe comportato se si fosse trovato al suo posto!
L’imputato che fa domande al PM è un inedito assoluto molto significativo del “clima” nel quale si è svolto l’esame. Allo stesso modo è difficile che in un’aula di Tribunale si senta il PM rivolgersi “con il dovuto rispetto” prima di formulare una domanda all’imputato, verso il quale, ordinariamente, il rispetto resta inespresso. Ma in questo processo tutto è straordinario. Davigo ha citato il precedente della notizia data personalmente da Borrelli al Presidente della Repubblica Scalfaro nella sua qualità di Presidente del CSM in occasione di minacce di morte indirizzate al pool e dell’offerta di protezione da parte dei servizi segreti americani, e ciò a conferma della possibilità di saltare il normale iter gerarchico in casi eccezionali. Alla domanda di chiarire le ragioni per le quali il pool decise di rivolgersi direttamente al PdR, la risposta è stata stupefacente: il Governo in carica era presieduto da Amato che era stato stretto collaboratore di Craxi, che era l’imputato più importante dell’inchiesta, per cui qualunque interlocuzione con il Governo era stata ritenuta inefficace. Sarebbe interessante sapere qual è al riguardo l’opinione di Giuliano Amato fino a pochi mesi fa Presidente della Consulta.
Come un fiume in piena, Davigo ha introdotto l’argomento “Champagne” con riferimento alla riunione clandestina, ma non tanto, che si tenne in quell’hotel per concordare le nomine direttive di cui si sarebbe dovuto occupare il CSM e in primo luogo quella del Procuratore della Repubblica di Roma. Davigo ha dichiarato che il contenuto delle registrazioni aveva rafforzato il convincimento che l’ordine giudiziario fosse sotto attacco e che le mille nomine d’incarichi direttivi e semi direttivi fatti da quel Consiglio dovessero essere riesaminati per accertare che non fossero state fatte “porcherie”. Insomma il suo è stato il comportamento di chi intendeva difendere l’ordine giudiziario e la sua autonomia e indipendenza.
Su due punti è sembrato in difesa. Non ha inteso rispondere sul ruolo svolto dalla moglie, magistrato in servizio alla DDA di Milano ed ex collega di Storari, e sulla fine fatta dalla chiavetta contenente i documenti e le registrazioni che gli venne data da Storari stesso. Al riguardo ha detto di non ricordare e forse di averla riusata dopo averne cancellato il contenuto. Conservarla? Per quale ragione se il contenuto era stato scaricato e stampato? È quello che facciamo tutti quando abbiamo bisogno di spazio! In fondo la chiavetta costa. Come dargli torto?
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