QUALCHE PUNTINO SULLE “I” DI ISRAELE E PALESTINA*
di Pietro Di Muccio de Quattro
I fatti degli ultimi giorni e ore, che hanno coperto la tragica invasione russa dell’Ucraina, toccano i nervi ognora sanguinanti dell’ebraismo, dell’antisemitismo, dell’islamismo, del sionismo, come la storia li ha intrecciati nell’antica Palestina, poco più di un’espressione geografica, parlando dal punto di vista statuale. Un’antica Terra intrisa di religioni, sangue, sette, che al mondo non ha dato altro che i guai delle guerre per la fede oppure le consolazioni ai credenti in tre religioni esclusive.
È vero, sulle coste della Palestina nacque l’alfabeto, che contribuì alla nostra civiltà. I Fenici portarono sviluppo commerciando con i popoli mediterranei. Tempi storici. I grattacapi palestinesi hanno preso a coinvolgere il mondo, fino a diventarne un problema capitale dopo la Shoà. Per effetto della quale gli Ebrei cessarono di sentirsi cittadini, e patrioti, degli Stati dove vivevano da secoli e convivevano più o meno in pace. Ritenne, il movimento sionista, che la salvezza degli Ebrei sarebbe stata assicurata soltanto entro confini sicuri sotto la sovranità dello Stato d’Israele. Da qui, dagli acquisti e dalle conquiste dei coloni ebraici, degli esuli, dei perseguitati, dei sopravvissuti, dei fuggitivi, prese forma il territorio dello Stato israeliano sorto nel 1948, mentre fumavano ancora le ceneri della guerra mondiale e i crematori dei campi di sterminio.
Il 14 maggio 1948, alla vigilia del ritiro delle truppe britanniche dai territori sottoposti al loro mandato, Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato d’Israele. Il 15 maggio gli eserciti di Egitto, Siria, Giordania, Libano, Iraq aggredirono il neonato Israele, che eroicamente resistette e sconfisse le cinque nazioni attaccanti su ogni fronte. Da quella fatidica sconfitta, che comportò l’esodo di circa ottocentomila Palestinesi dai territori persi in battaglia, sorse la frustrazione della Nakba (catastrofe), poi causa e pretesto delle successive guerre, intifade, conflitti, tensioni, scontri tra Palestinesi e Israeliani. La frustrazione, benché forse non generalizzata adesso a tutta la popolazione palestinese, parte della quale è cittadina israeliana o lavora in Israele, ha assunto una virulenta concentrazione in minoranze agguerrite, fanatizzate, bellicose, terroristiche, il cui obiettivo statutario è la distruzione dello Stato di Israele o, come dicono, “buttare a mare gli Ebrei”. Questo loro programma genocida, immorale, illegittimo, protervo, è pure inspiegabile alla luce della ragion politica, se non con la bieca conservazione del potere personale di caste autocratiche e di grassatori che utilizzano la religione come mezzo di dominio e arricchimento. Possiamo credere a queste caste, ciascuna sedicente vera e unica rappresentante del popolo palestinese, che, a sentir loro, sconosce e disconosce l’elezione democratica o qualcosa che le assomigli? Esse proclamano di guerreggiare allo spasimo per la liberazione della Palestina tenendo in schiavitù il popolo palestinese. È credibile?
Con la Risoluzione 181 dell’Onu che decretava la nascita di due Stati, la Palestina e Israele, la comunità internazionale, i cui principali Paesi, senza distinzione tra capitalisti e comunisti, ne effettuarono subito il riconoscimento, ebbe uno strumento giuridico a cui aggrapparsi nella disputa. Ma quello strumento non bastò a salvare il popolo palestinese dai suoi interessati patroni, che dalla prima guerra arabo-israeliana, da loro vergognosamente persa, non smisero mai più di utilizzarlo e strumentalizzarlo, sebbene non sempre e non tutti. Infatti nei decenni successivi alcuni Stati arabi si riconciliarono con lo Stato ebraico e si scambiarono il riconoscimento diplomatico, mentre varie autorità palestinesi strinsero con il governo israeliano accordi prodromici di trattati definitivi poi mai stipulati.
Dunque, la Palestina ha diritto al suo Stato, come Israele ha diritto al suo. Gli Ebrei l’hanno realizzato, difeso, arricchito, sviluppato, facendo fiorire il deserto. I Palestinesi, no. Esclusi i loro oligarchi, il popolo vive precariamente, talvolta in miseria, senza godere né della libertà né della prosperità del vicino confinante. Lo vede chiunque apra gli occhi lì, da una collina. La colpa dello sfacelo, secondo gli oligarchi, sarebbe di Israele che vuole tenere aggiogati e sottosviluppati i Palestinesi. Se no, si armerebbero per distruggerlo. Ma hanno provato a farlo con guerre e intifade, dall’inizio! E hanno rifiutato le occasioni di concludere la pace perché minacciati alle spalle dai loro fratelli islamici, non dagli Israeliani!
Resta il fatto che comunque la si giri e la si pensi, la Questione palestinese pare irresolubile non solo per i caratteri propri ed evidenti dei pupi, ma anche per le mene dei pupari che perseguono interessi convergenti e divergenti, a seconda della congiuntura internazionale. Non è una lotta tra oppressi e oppressori se non nel senso che gli uni e gli altri stanno da una parte sola. “Non è uno scontro tra un diritto e un torto ma tra due diritti”. E questa affermazione non è mia, bensì di un grande uomo politico, che fu anche ministro degli Esteri di Israele dal 1966 al 1974, Abba Eban. Perciò il riconoscimento è viepiù autorevole e veritiero provenendo da un “nemico”. Tuttavia, Abba Eban è rimasto meno famoso per la dichiarazione sul diritto dei Palestinesi al proprio Stato che per l’aforisma pronunciato a margine dei negoziati di pace Arabo-Israeliani del 1973: “Gli Arabi non perdono mai l’occasione di perdere un’occasione”.
La Questione palestinese non è sbagliato riassumerla in una oscura sequenza di guerre e occasioni mancate: un mistero che dura da 75 anni. I fatti hanno dimostrato che Israele non è un semplice muro, ma l’antemurale dell’Occidente contro l’espansione dell’antidemocrazia e dell’illiberalità. L’estremismo pseudoreligioso dei terroristi musulmani contiene una carica antisemita che non affonda le radici nell’Islam, bensì in un assolutismo paranoico e paranazista. Israele rappresenta la prova vivente di un ghetto che si è fatto Stato: qualcosa d’intollerabile per dei razzisti, perfino se semiti. L’Unione Europea ha un interesse vitale a difendere Israele perché questo è la proiezione spirituale dei valori di quella. Israele equivale agli Usa. “Noi non siamo amici degli Americani perché alleati. Noi siamo alleati perché amici”. Anche se non formalmente, noi siamo, non possiamo non essere alleati degli Israeliani, proprio perché siamo loro amici.
Se cadesse Israele (Dio non voglia!), tutti i governi islamici moderati, inclinanti al laicismo, sarebbero ineluttabilmente travolti. La stessa Turchia, all’origine bastione della Nato in Asia, ora pendolo ondeggiante, rischierebbe di essere risucchiata nel gorgo del fondamentalismo. Negli anni Settanta-Ottanta in Europa impazzava a sinistra lo slogan “meglio rossi che morti”. Dall’11 settembre 2001, ad aprire le orecchie, s’ode in sottofondo un’arietta che canta “meglio maomettani che terrorizzati”. In quegli anni l’Italia, nonostante le sirene contrarie, rifiutò il terzomondismo, il non allineamento, la rivoluzione proletaria. Nel dopo 11 Settembre la nostra frontiera ideale coincide con le frontiere fisiche dello Stato d’Israele, che costituisce il nostro scudo contro il terrorismo globale. Il male oscuro dei regimi dell’infamia e degli infami aggredisce sempre prima gli Ebrei, ma poi attacca tutti quelli che si oppongono. A quel punto non c’è più via di scampo per nessuno, a prescindere dalla razza, dalla religione, dalle opinioni. O servi o morti.
*tratto da BeeMagazine del 19.10.2023