PERCHÉ UN LIBERALE NON PUÓ NON DIRSI CROCIANO

PERCHÉ UN LIBERALE NON PUÓ NON DIRSI CROCIANO

di Pietro Di Muccio de Quattro*

Benedetto Croce nacque il 25 febbraio 1866 e morì il 20 novembre del 1952. Dunque è appena caduto il settantesimo della scomparsa, un tipo di anniversario che usualmente non viene celebrato. Ma ricordare Croce è un dovere che non è male assolvere sempre, a prescindere dalle ricorrenze. Perciò con l’occasione e nel mio piccolo, parafrasando il titolo del suo celebre “Perché non possiamo non dirci cristiani”, vorrei provare a spiegare perché un liberale non può non dirsi crociano e, per converso, perché un illiberale non dovrebbe dirsi crociano.

La mia spiegazione non attinge, ahimè, alla conoscenza specialistica dell’opera omnia del Filosofo, più che difficile anche solo per l’imponenza. Cerco di rifarmi a ciò che essa insegna a chi come me l’ha frequentata quel tanto che gli consentisse di aprirsi alla comprensione della realtà sociale e avventurarvisi con un mezzo di orientamento.

Ho sempre pensato che il demone interiore degli esseri umani, evocato da Eraclito per primo (Al destino degli uomini guida il carattere, traduco così il frammento 22 B 119 DK), trascini ciascuno anche verso una fede politica. Si può essere naturaliter liberali oppure diventarlo per acquisizioni culturali ed esperienze di vita. In entrambi i casi sono portato a credere che la lettura di Etica e politica soprattutto e delle Storie, d’Italia o d’Europa, sia necessaria per capire la società e orientarsi tra le passioni che ne modellano il vivere civile. La storia come storia della libertà, anche quando conculcata, costituisce “la bussola per l’educazione politica dei tempi nostri, come di tutti i tempi”.

Chi sente di essere naturalmente liberale trova in Croce una naturale corrispondenza, appunto. Sfogliando le sue pagine gli capita di sobbalzare. Lì vengono esplicitati i pensieri che aveva in testa e gli altri che, leggendo, constata che vi si riconnettano, senza che prima ne fosse neppure consapevole. Il lettore liberale si stupisce che il Maestro gli legga dentro e ne scriva avendo chiaro ciò che al liberale in nuce chiaro non è, non ancora. La forma è solenne; l’argomentare, profondo. In Etica e politica non c’è niente della bolsa e astrusa filosofia dei filosofi che menano vanto dell’incomprensibilità, noncuranti della condanna di Galileo: “Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi.”

Quanto a questo, Croce è galileiano come pochi filosofi.

La coerenza e consonanza tra teoria e pratica in Croce è un altro elemento vitale per un liberale che sente di esserlo ma necessita di una guida sicura che gli indichi come condursi. Croce gli spiega il mondo come va e come potrebbe andare, ma senza moralismi da sacrestia o da partitante. Non prospetta né insegna un’etica dell’adattamento. Il suo non è il realismo della sopportazione e dell’indifferenza delle scelte né del cinismo inteso “così va il mondo”. Egli è pure l’uomo politico che rifiuta la presidenza della Repubblica perché nel referendum istituzionale ha votato la Monarchia e “diffida” il capo dello Stato, Luigi Einaudi, dal nominarlo senatore a vita, lui che a vita era stato senatore del Regno dal 26 gennaio 1910. Einaudi gli rispose che con la firma della nomina avrebbe “messo per iscritto il voto unanime degli italiani, i quali riconoscono in Benedetto Croce la espressione più alta del pensiero contemporaneo”.

Benché Croce fosse un intellettuale di fama europea, il Re dovette prosaicamente ricorrere alla categoria 21 dell’articolo 33 dello Statuto, l’unica che legittimasse la nomina: “Le persone che da tre anni pagano tremila lire d’imposizione diretta.” Il documento parlamentare (Verificazione dei titoli dei nuovi senatori, scheda n.1497), alla voce “Titoli gentilizi e cavallereschi, Professioni, ecc.” del nominato, reca questa esilarante annotazione: “Professore?” Proprio così, con il punto interrogativo, incredibile a dirsi. Il fatto, ben noto, è che Croce non aveva titoli accademici di sorta (non era laureato) né ricopriva alcuna delle cariche pubbliche elencate nelle altre 20 categorie statutarie. Il Senato non convalidò la nomina di Croce all’unanimità, ma con 84 voti contro 9.

Per un liberale allo stato nascente, in cerca di solidi appoggi per la sua baluginante inclinazione politica, Benedetto Croce costituisce il mentore, il consigliere saggio e fidato, il paterno maestro che domina una prodigiosa cultura intrisa di sapienza e saggezza, di ragione pura e di ragione pratica così intimamente fuse da costituire una filosofia utile soprattutto a chi voglia addentrarsi nella vita con gli occhi aperti. Egli, senza volerlo, è il “teologo” della libertà concepita infatti come una religione, “la religione della libertà”, non rivelata, non dogmatica, non profetizzata, ma sviluppata dagli esseri umani con il farsi della storia e nel corso della storia. Quando m’inoltro in uno scritto crociano non mi sento soffocato e claustrofobico come se entrassi in un oppressivo sistema di pensiero, in una stanza chiusa e buia. Tutt’altro. Sento in quello scritto l’apertura mentale alle possibilità vitali e l’ignoto aprirsi alla speranza. Soltanto in libertà, l’imprevedibile diventa certezza di sviluppo durevole e benefico. Nel mentre respiro a pieni polmoni l’atmosfera del sistema aperto e arioso dello scritto crociano, non vengo trascinato in alto da idee appese alla volta del cielo ma sento di restare ben piantato sulla terra, tra la bellezza e la durezza della politica, dentro la vita così com’è nella realtà della convivenza umana.

Come tutti i liberali veri, Croce insegna che il destino o non esiste o non è scritto. Egli crede che la storia ha dalla sua la libertà perché la libertà è eterna quanto la specie umana che l’ha generata. Tuttavia la conservazione e lo sviluppo della libertà non sono avulsi né dal diritto, né dalla giustizia, né dall’etica né dall’educazione coerenti con il sistema liberale. L’idea che la lotta tra libertà e illibertà potesse essere risolta dalla vittoria dell’una o dell’altra una volta per sempre, non lo sfiorava neppure. Avrebbe significato la fine della storia umana, che però non può finire, a meno che l’homo sapiens, cedendo a chi gli addita per fatale presunzione un fine generale escatologico, immanente o trascendente, attinto a privilegiate conoscenze superiori, procuri da sé la distruzione totale della specie vivente sulla terra come la conosciamo.

Esiste una differenza essenziale ed esiziale tra avanzare a tentoni nella ricerca delle mete migliori, correggendo gli inevitabili errori sul cammino, e procedere con irremovibile fissazione verso la prestabilita ultima meta, nella certezza di raggiungerla senza commettere errori. “Senso della realtà politica contro fantasticherie e vacuità di sicura attuazione nell’avvenire”, con le parole di Croce. Al termine di questa personale noterella crociana, affiora un’amara conclusione. Le opere di Croce, malgrado la pressoché costante ripubblicazione, nondimeno sono rimaste appannaggio dell’alta cultura. Gli studi di esse non sono discesi al livello dove la politica si abbevera.

Croce sembra colpito dalla damnatio che avvelena le classi dirigenti divenute postfasciste e postcomuniste dopo il fallimento dei loro lugubri Dei, che Croce contribuì a disvelare falsi e gettare nella polvere. La rimozione di Benedetto Croce dalla cultura popolare, non ovviamente dalla cultura nazionale, pare decretata proprio dalla storia del secondo Novecento, essendone egli la figura, culturale e politica, preminente della prima metà. Non è più dato di sentire dei politici, leader oppure no, dichiarare di sentirsi crociani, neppure in parte o alla grossa. Con malriposto orgoglio, esibiscono ascendenze di dubbia reputazione, poco o punto liberali. Dell’asfittico liberalismo italiano, così privo di vitalità da sembrare ora irriconoscibile ora introvabile, sono cause non secondarie il distoglimento e il disamoramento degl’Italiani dal pensiero e dall’azione di Croce, la cui vita, di per sé stessa, fu esemplare come formazione alla libertà morale e politica.

*Pietro Di Muccio de Quattro è Direttore Emerito del Senato, Ph. D in Storia delle Dottrine e Istituzioni politiche, già parlamentare.

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    Giuseppe Gullo 2 anni

    Complimenti, articolo chiaro e ben strutturato. 

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