LUCI E OMBRE DEL MANIFESTO DI VENTOTENE

LUCI E OMBRE DEL MANIFESTO DI VENTOTENE

di Giuseppe Gullo

I tabù, prima o dopo, sono destinati a cadere sotto i colpi impietosi della Storia; è accaduto per il fattore “K” che ha bloccato per decenni l’alternanza nella democrazia italiana; è accaduto per la tragedia delle foibe, oscurata per decenni era vietato parlare; è accaduto, in sede storica, per la figura di Garibaldi, del quale non si poteva parlar male sino a che una lettera del tutto inventata da un romanziere comico l’ha trasformato in un personaggio antirisorgimentale e antiunitario.
Sta ora accadendo per il documento predisposto a Ventotene da Spinelli e Rossi, rivisto e pubblicato da Colorni nel 1944, prima di essere trucidato dai fascisti della banda di Pietro Koch, e che da allora è considerato il documento ispiratore verso un’Europa federale. È stata una dichiarazione di Meloni in Parlamento a innescare la discussione. Ha detto la premier, leggendo alcuni paragrafi del documento, che non si riconosce in quelle frasi del Manifesto e che non è quella la sua Europa. Apriti cielo! Il PD ha gridato allo scandalo e alla lesa maestà. Una parte rilevante dell’intellighenzia di sinistra si è stracciata le vesti e ha parlato di tentativo di distruggere le fondamenta dell’UE. Pochi soltanto hanno preso in mano il Manifesto, scritto da Spinelli e Rossi nel 1941, mentre si trovavano al confino, per comprendere ciò che è ancora valido e distinguerlo da ciò che non lo è e, forse, non lo è mai stato.

Ma procediamo con la possibile obiettività, facendo una doverosa premessa. La statura morale e politica dei Padri del Manifesto non è in discussione. Essa fa parte della Storia ancora oggi più viva della nostra Repubblica. Il che non ci impedisce di valutare criticamente, a distanza di 84 anni dalla sua redazione, alcune parti di un documento scritto dagli autori durante il loro confino nell’isola di Ventotene, cui il regime fascista li aveva relegati insieme ad altri circa 800 antifascisti.

La frase più importante del Manifesto a me sembra quella in cui, dopo avere aspramente e fortemente criticato i regimi totalitari e quello tedesco in particolare, afferma che “il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani.”

Purtroppo, oggi possiamo dire che non solo questo auspicio non si è realizzato, ma è addirittura certo che nessuno degli Stati membri dell’Unione vuole realmente un’Europa Federata. Già l’abbandono dell’Unione da parte della Gran Bretagna, che non aveva mai accettato la moneta unica, vi ha inferto un colpo mortale, ma la stessa posizione degli altri Stati, anche quelli più filoeuropei, esclude una perdita di sovranità su aspetti essenziali, la pressione fiscale, i flussi migratori, la politica estera e di difesa.

Poi, ci sono anche le parti che oggi appaiono superate e che, per la verità, anche Spinelli aveva successivamente abbandonato, laddove si afferma che “la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio“, indicando poi un lungo elenco di settori nei quali il controllo deve essere in mano pubblica e tra questi le banche, l’industria degli armamenti e quella mineraria. E poi, al punto B dello stesso capitolo il documento afferma che…” in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire…”. Non mi pare che questa che una simile proposta sia stata inserita nella Costituzione e poi nel programma elettorale di un qualche partito di oggi, e penso che se oggi così fosse quel partito avrebbe un pessimo risultato elettorale.
Alcune frasi, che oggi nessuno in Europa potrebbe condividere, rispondono allo spirito di quei tempi, in cui sembrava che solo la resistenza sovietica fosse in grado di bloccare gli eserciti nazisti e la rivoluzione socialista fosse dietro l’angolo, come quando afferma che “
I democratici non rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità..”, ovvero che “la metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria “; ma, anche qui, è il comunista rivoluzionario di allora che parla quando afferma che la funzione di guida e di gestione di questa fase spetta al “partito rivoluzionario“, che è la risultante del partito dei proletari uniti e alleati dei democratici a cui durante la crisi rivoluzionaria spetta organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze rivoluzionarie non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate”.

E qui torniamo purtroppo indietro sino alla Rivoluzione d’Ottobre, con una patina di “trotskismo”, l’accusa infamante utilizzata nel 1937 dal Partito Comunista per espellere Spinelli.
Che queste parti del Manifesto fossero datate e non condivisibili, l’ha ben evidenziato Enzo Palumbo in una sua lezione a un Master di Alti Studi Europei dell’Università di Messina del 2021, allorché ha ricordato che il Manifesto, che pure era partito dalla constatazione che “la civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della Libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere strumento altrui ma un autonomo centro di vita” , si era poi espresso, guardando alla realtà di allora, “in termini più propriamente politici, con larghe concessioni alla ristrutturazione della società del futuro su basi che potremmo definire “azioniste e/o socialisteggianti”, nell’auspicio di un’alleanza tra classe operaia e ceti intellettuali che sarebbero stati chiamati a concorrere alla nascita della nuova Europa, nella visione di una società qual era quella di allora e che chiaramente oggi più non esiste. D’altra parte, nessuna meraviglia per l’inclinazione politica del Manifesto: Ernesto Rossi era stato uno degli animatori di Giustizia e Libertà, e, dopo la liberazione, rappresentò il Partito di Azione come sottosegretario nel governo Parri, mentre Altiero Spinelli, ….., fu poi deputato italiano ed europeo eletto nelle liste del partito Comunista, ancorché da indipendente; e tuttavia entrambi erano ferventi federalisti, ed è per questo che vanno oggi ricordati.

E tuttavia resta la parte certamente condivisibile, che è quella che auspica il superamento dello Stato sovrano, come ho ricordato all’inizio, e che tanti anni prima Luigi Einaudi aveva già bollato come “idolo immondo”; da qui l’affermazione oggi attualissima secondo cui “la linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale ……. e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale”.

Insomma, un manifesto con luci e ombre, dove le ombre si sono ormai del tutto dissolte mentre le luci sono ancora vivissime e dovrebbero servire a illuminare i governi europei proprio quando l’UE vive una fase di grande difficoltà, stretta nel dibattito tra chi sinceramente chiede più Europa e altri che invece privilegiano gli egoismi nazionalisti, e ciò proprio mentre il tradizionale rapporto privilegiato con gli Usa è ormai entrato in crisi sotto i colpi della nuova amministrazione insediatasi alla Casa Bianca e dovrebbe quindi essere il viatico per una più forte integrazione europea.

Cosa resta allora di valido e importante del documento del 1941? Resta l’idea sempre attuale di un‘Europa federale, dalla quale siamo ancora distanti molti anni, se mai si realizzerà. E resto convinto che solo il rilancio di un federalismo ampio e condiviso può fare venir fuori il Vecchio Continente dalle sabbie mobili nelle quali si trova impantanato.

Fonte Foto: Wikimedia CommonsSailkoCC BY 3.0

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