L’OPERAZIONE MILITARE SPECIALE RUSSA: UN BOOMERANG*

L’OPERAZIONE MILITARE SPECIALE RUSSA: UN BOOMERANG*

di Gianludovico de Martino di Montegiordano

Il 20 febbraio del 2022, per una questione territoriale con l’Ucraina, lascito della dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, la Russia tentava una guerra lampo che prevedeva anche un cambio di regime a Kiev, assumendo che una fazione interna favorevole  a Mosca fosse pronta a disarcionare il governo in carica e quindi chiedere la pace alla Russia. Il sostegno occidentale all’Ucraina – in atto già da anni – e una miscela di impreparazione e incompetenza hanno fatto fallire il piano russo. La capacità logistica di Mosca è risultata inadeguata a sostenere un’offensiva il cui successo dipendeva dall’elemento della velocità. Il regime ucraino ha dimostrato di essere molto meno fragile di quanto il Cremlino credesse.  L’aggressione  russa lo ha anzi rafforzato. Kiev non è caduta. Se l’obiettivo russo di era di prevenire ulteriori espansioni dell’Alleanza Atlantica, l’operazione militare speciale si è rivelata  un boomerang: Svezia e Finlandia hanno rinunciato alla neutralità. La Russia ha inoltre subito sanzioni finanziarie e commerciali mentre l’Europa ha diversificato le fonti di  approvvigionamento energetico per privarla  delle risorse necessarie per continuare la guerra e provocare nel medio-lungo termine una crisi economica. In sintesi, un errore colossale che sembrava preconizzare una imminente sconfitta russa e, ciliegina sulla torta, l’uscita di scena di Putin: cambio di regime a Mosca invece che a Kiev.

Ventun mesi dopo la guerra continua. Il blitzkrieg di Putin si è trasformato in una guerra di logoramento stile 1914-1918 e siamo ora nel vicolo cieco di un conflitto per procura, cronico, asimmetrico e a intensità variabile. È soprattutto una questione psicologica. Il Donbas e la Crimea sono colonne portanti dei sentimenti nazionalisti e revanscisti che pervadono la Russia dallo sfaldamento dell’Unione Sovietica nel 1991, ritrovandosi nuovamente ridotta agli stessi termini del Trattato di Brest-Litovsk del marzo 1918, quando tra l’altro perse  temporaneamente l’Ucraina.  I sentimenti nazionalisti e revanscisti sono ulteriormente invigoriti dalla percezione russa che fine ultimo del sostegno bellico occidentale a Kiev è oltre al cambio di regime anche l’implosione e la frammentazione della Russia. Un esito sovente menzionato e anche auspicato da analisti, accademici e esponenti politici, occidentali e ucraini, che in questo modo fanno il gioco dell’atavico complesso  di persecuzione russo.

È una guerra che potrebbe durare ancora anni. Il recupero da parte dell’Ucraina delle regioni occupate dalla Russia è alquanto improbabile. La Russia non rinuncerà mai alla Crimea mentre l’attuazione degli accordi di Minsk del 2014 è superata dallo stato di fatto: il Donbas è stato annesso dalla Russia. Anche se dovessero  subire sconfitte e temporaneamente arretrare i russi tenteranno la riconquista. L’idea che una guerra di logoramento per procura con Mosca possa portare a un cambio di regime al Cremlino e rendere possibile una pace in termini imposti da Kiev non è particolarmente valida. È troppo facile spiegare l’invasione dell’Ucraina evocando il “fattore Putin”. Se questi sarà rimosso non sarà perché ha fatto una guerra ma piuttosto perché non ha ottenuto il risultato che aveva promesso. Sarà sostituito da una nuova dirigenza che si spaccerà  per più efficace.

In concreto il problema tra la Russia e l’Ucraina risiede nel fatto che spostare confini crea minoranze le quali sono difficilmente gestibili se si esclude – o non si attua – per esse il riconoscimento di uno statuto speciale. Il conflitto attuale è il lascito a scoppio ritardato di un capriccio di Lenin e più tardi di Krusciov che – come del resto Stalin – avevano un debole per lo spostamento di confini e popolazioni. Ai tempi dell’Unione Sovietica non faceva comunque grande differenza dove si fosse:  sistema e standard erano gli stessi dalla frontiera polacca all’Oceano Pacifico, su uno sfondo ideologico che aveva forti connotati di internazionalismo. Nel 1991 il collasso dell’Unione Sovietica ha aperto il vaso di Pandora e il nazionalismo ha avuto nuova linfa vitale.

La propensione a una soluzione pacifica è soprattutto funzione della sostenibilità dello sforzo bellico. Per gli ucraini la guerra è sostenibile fino a quando i requisiti sono soddisfatti dal sostegno occidentale. La demografia non è favorevole all’Ucraina e per colmare  il divario – anche se con riluttanza – sono stati progressivamente forniti a Kiev materiali di più alta tecnologia.  È d’altra parte una guerra per conto terzi, la cui escalation è intrinsecamente contenuta dalla preoccupazione che uno sconfinamento anche accidentale oltre la linea rossa del diretto confronto con la Russia potrebbe comportare conseguenze insostenibili.

Circa la sostenibilità della guerra per la Russia, la sua economia ha ampi margini di autosufficienza. Al pari dell’Ucraina – con cui condivide un lungo passato – la popolazione ha un’elevata soglia di tolleranza di sofferenza e deprivazione materiale come risultato delle vicissitudini del XX secolo che vi hanno particolarmente infierito. Lungi dal sancirne l’isolamento, la guerra ha avuto conseguenze internazionali che sembrano incrementare la resilienza di Mosca. Ne ha rinsaldato il rapporto con Pechino: sotto questo profilo il conflitto assume anche per la Russia il carattere di una guerra – parzialmente – per procura, funzionale alla competizione globale con Washington e i suoi alleati da parte di un blocco a guida sino-russa. Grazie all’appoggio cinese per Mosca si allontana il punto di rottura della sostenibilità del conflitto, ma il prezzo politico del soccorso potrebbe a lungo andare rivelarsi  non conveniente in termini di autonomia di azione.

Anche per l’Occidente la sostenibilità ha limiti. Il sostegno all’Ucraina è finora costato agli Stati Uniti e all’Europa oltre 200 miliardi di dollari USA, incrementando debito e tassazione e sottraendo risorse al welfare e agli investimenti, in un quadro economico già compromesso dalle conseguenze di lungo termine delle politiche economiche perseguite durante la pandemia: contrazione della produzione e introduzione di sussidi che hanno innescato una spirale d’inflazione e alti tassi di interesse. La guerra e la diversificazione verso altri fonti di approvvigionamento energetico hanno peggiorato la situazione, soprattutto per i paesi europei, con forti incrementi dei prezzi che hanno intaccato il tenore di vita e colpito l’economia nel suo complesso. Paradossalmente i nuovi fornitori  non sono molto più affidabili o scevri da rischi rispetto alla Russia. L’Europa è ora molto più dipendente da paesi con i quali è in contrasto sulla  questione cruciale di Israele e Palestina. La maggior parte di questi paesi ha legami di lunga data con Mosca, dai tempi della decolonizzazione e della Guerra Fredda. Siamo tornati al punto di partenza. O forse anche peggio se si considera che i russi hanno rapporti con Hamas.

La devastazione sofferta dall’Ucraina è immensa. Il costo di ricostruzione è stimato  in oltre mille miliardi di dollari USA. L’idea di una riedizione del Trattato di Versailles – con Mosca che paga le riparazioni – non è molto realistica e in qualche modo  l’onere ricadrà sui paesi che hanno sostenuto lo sforzo bellico di Kiev. D’altra parte,  malgrado una ovvia obbligazione morale, l’entusiasmo per il sostegno all’Ucraina non può essere dato per scontato nel lungo termine. Si può azzardare che più durerà  la guerra  peggiori saranno i termini di un accordo per l’Ucraina. Kiev rischia non solo di dover rinunciare alla penisola di Crimea ma anche al Donbas. Si tratterebbe di una scelta difficile. Per essere pienamente efficace un accordo tra Ucraina e Russia dovrebbe comprendere lo sfruttamento congiunto delle risorse naturali del Donbas, specialmente terre rare e litio essenziali per la transizione verde, di cui la regione è particolarmente ricca. Un modello potrebbe essere quello della CECA – la Comunità Europea della Carbone e dell’Acciaio, antenato dell’Unione Europea – che venne istituita nel 1951 per assicurare la pace in Europa attraverso la cooperazione economica per lo sfruttamento di materie prime in una regione  che  era stata causa di guerre tra Francia e Germania. Parallelamente a un accordo sulla Crimea e il Donbas un trade off dovrebbe contemplare una rimodulazione dei rapporti di Mosca con Pechino e Teheran nella prospettiva dello sviluppo di un costruttivo rapporto della Russia con l’Occidente. Kiev dovrebbe ricevere immediatamente luce verde per l’avvio del processo per diventare membro dell’Alleanza Atlantica. Anche se è discutibile sia mai stata intenzione russa di andare oltre Crimea e Donbas e rivendicare tutta l’Ucraina – incorporare popolazioni fondamentalmente ostili non è un obiettivo molto intelligente: il fallito iniziale tentativo di prendere Kiev era  più probabilmente una mossa tattica finalizzata a un successivo ritiro negoziato – un accordo dovrebbe prevedere un modo per estendere da subito all’Ucraina la garanzia dell’Art. 5 del Patto Atlantico. L’accesso dell’Ucraina all’Alleanza Atlantica – e all’Unione Europea – richiede d’altra parte notevoli riforme. Absit iniuria verbis ci sono similarità tra la Russia e l’Ucraina, paesi la cui ricchezza tende a non percolare alle rispettive società nel loro complesso, con tutte le implicazioni politiche che ciò comporta. Sotto questo profilo si tratterà di stimolare in Ucraina un virtuoso percorso interno di effettivo allineamento a principi e valori la cui difesa rappresenta la principale motivazione del sostegno occidentale allo sforzo bellico di Kiev.

 

*Fonte Foto e Articolo: TUTTI-Europa ventitrenta del 20.11.2023 – articolo dell’ambasciatore Gianludovico de Martino di Montegiordano, nostro responsabile per la geopolitica

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