L’ITALIA TRA INFLAZIONE ED EXTRATASSAZIONE
di Giuseppe Gullo
Un osservatore dei fatti politici italiani ha più di una ragione per dovere fermarsi a riflettere a lungo per cercare di capire bene il reale significato e la portata delle notizie che arrivano copiose alla sua attenzione. In questi giorni, in materia economica, abbiamo letto che la crescita del PIL italiano, che nell’ultimo anno aveva fatto segnare percentuali record superiori a Germania e Francia, ha rallentato la sua corsa diminuendo dello 0,3 % su base annua; che la disoccupazione è del 7,2%, la più bassa da decenni, con aree che segnano la piena occupazione e settori che non trovano addetti, come nella ristorazione, nel turismo e in agricoltura; che il dato presenta un forte sbilanciamento a favore dell’occupazione maschile rispetto a quella femminile, poco sopra il 50%; che il numero di persone in cerca di occupazione è diminuito di oltre 80.000 unità, mentre coloro che non cercano lavoro sono abbastanza stabili. È questa la fotografia di una situazione vivace con un andamento positivo apprezzabile che tuttavia non fa migliorare di molto, rispetto ai Paesi europei, il rapporto del livello occupazionale italiano che ci vede lontani con un distacco di ben 13 punti. Non vi è dubbio che il dato Istat riferito al secondo trimestre 2023, lascia fuori un’area non trascurabile del lavoro nero e della seconda occupazione che hanno una loro incidenza. Il che potrebbe indurre a concludere che l’occupazione reale è a livelli di quella europea e che non trova lavoro chi non lo cerca o chi non lo vuole.
Nello stesso tempo un illustre economista con una breve esperienza di politica attiva come senatore eletto nelle liste del PD, il prof. Cottarelli, che ha lasciato lo scranno per dissensi con il partito che lo ha eletto, lancia un allarme dicendo che l’inflazione degli ultimi due anni ha rappresentato per i risparmiatori una patrimoniale silenziosa molto pesante che ha falcidiato di almeno il 10% il potere d’acquisto e il valore reale dei depositi. È noto a tutti che il nostro è un Paese di risparmiatori i cui depositi sostengono buona parte dell’organizzazione dello Stato, in essa compresa, purtroppo, l’area improduttiva e parassitaria. La Cassa Depositi e Prestiti, che gestisce il deposito postale, dispone di una liquidità di 349 miliardi a fronte di poco più di 500 miliardi della prima banca italiana che è Banca Intesa.
A fronte di questi dati che danno alla nostra economia forza e stabilità pur in presenza di un forte debito pubblico, l’inflazione che si è sviluppata negli ultimi due anni e che le Banche centrali stanno combattendo aumentando il costo del denaro, è stata riversata quasi interamente sui consumatori. Ne sono esempio eclatante il vertiginoso aumento del costo di alcuni servizi, alcuni dei quali essenziali, per i quali abbiamo assistito a un aumento notevole dei costi non giustificati dai prezzi delle materie prime. In tal modo grandi società, anche controllate dal Tesoro, hanno aumentato a dismisura i profitti falcidiando i redditi con ricadute pesanti su quelli medio-bassi.
Abbiamo visto tutti gli aumenti di gas, elettricità, benzina, generi alimentari, trasporti e via dicendo ai quali i cittadini hanno fatto fronte intaccando i risparmi o diminuendo i consumi.
I più grandi economisti degli ultimi 150 anni si sono cimentati nell’individuazione della soluzione più adeguata per combattere gli effetti negativi dell’inflazione giungendo a conclusioni molto diverse. L’uso dell’aumento del costo del denaro è lo strumento di contrasto di più frequente uso. Gli effetti tuttavia sono pesanti, ad esempio per il conseguente aumento dei tassi dei mutui e l’adeguamento di quelli già in essere stipulati a tasso variabile. Questi ultimi scontano già adesso interessi doppi rispetto a prima col proporzionale aumento della rata che grava sui sottoscrittori. Da qui un rallentamento del mercato immobiliare e un aumento delle sofferenze. È inoltre evidente che, a parità di reddito, il minore potere d’acquisto comporta una riduzione dei consumi o un ricorso all’uso dei risparmi e/o del credito, che produrranno inevitabilmente un impoverimento delle famiglie. La ridotta domanda inoltre produrrà effetti sull’offerta e quindi sulla produzione.
Il Governo non è in condizione di diminuire la pressione fiscale consentendo al contribuente di avere maggiore disponibilità di denaro e inoltre adotta misure inflattive come l’aumento delle accise sui carburanti per finanziare con 860 milioni le società di calcio. Per quanto tempo la laboriosità e la propensione al risparmio degli Italiani potranno consentire di resistere? Non a lungo, temo. Per cercare di fare cassa il Governo vara un provvedimento per prelevare dalle banche una percentuale sui c.d. extra profitti. L’incidenza dell’operazione è valutata in primo momento tra i 4 e 5 miliardi di euro. Il primo effetto è stato quello di causare una perdita in borsa di circa dieci miliardi delle società del settore e di creare una situazione di potenziale incertezza in un ambito nel quale le certezze sono fondamentali, specie per gli investitori internazionali. Parte subito una frenetica consultazione tra Presidenza del Consiglio, Tesoro e ABI a conclusione della quale la misura viene ridotta allo 0,1% dell’attivo e il gettito risulta così quasi dimezzato.
Il primo sentimento nella valutazione di un simile provvedimento è quello di ritenere che è giusto e che le banche se lo meritavano ampiamente. Chi lo valuta invece con la logica degli effetti nel medio-lungo periodo, si rende conto che non è così e che i due miliardi di prelievo avranno un costo molto più elevato per l’economia del Paese. Il colpo a effetto per reperire fondi, senza una visione complessiva della situazione economica, è tipico di chi ricerca un facile consenso senza guardare lontano e senza avere alcuna strategia. Peccato che l’opposizione manchi anche questa volta l’occasione per svolgere il suo ruolo nel modo giusto e con contenuti di vasto respiro. Non c’è da stare allegri!
Fonte Foto: Wikimedia Commons – Lucalindholm – CC BY-SA4.0