LE CONTRADDIZIONI IRRISOLTE DEL PD E IL LABOUR PARTY CHE NON C’È
di Giuseppe Gullo
Ho l’impressione che la discussione tra i commentatori politici si svolga come se elezioni fossero già passate e il voto avesse dato la maggioranza alla destra in misura ovviamente non definibile. È chiaro che ognuno di noi, a seconda del proprio orientamento, si augura che le previsioni siano esatte o sbagliate in tutto o in parte, come è accaduto in molte occasioni. Tuttavia l’idea di discutere dello stato dell’arte e delle prospettive delle principali forze politiche dopo il 25 settembre è intrigante.
Mi soffermo su due osservazioni che giudico molto interessanti sulla principale forza della sinistra. La prima riguarda la natura e la condizione del PD attuale e di quelle che potrebbero essere le ricadute su questo Partito di un’eventuale sconfitta elettorale.
L’idea di un Partito nuovo e aperto, fortemente ancorato al territorio, è rimasta inattuata. Dopo i primi tentativi, due dei cardini del “nuovo” partito, e cioè la scelta dei candidati con le primarie aperte agli iscritti e ai votanti e la quota di rappresentanza riservata alle donne sono stati abbandonati. Gli effetti sono quelli che abbiamo visto nella formazione delle liste elettorali. I candidati sono stati scelti dal segretario e dai suoi principali collaboratori secondo criteri di pura convenienza politica senza interpellare gli iscritti e i simpatizzanti per evitare brutte “sorprese”. Allo stesso modo la quota femminile che avrebbe dovuto essere del 40% è sostanzialmente di molto inferiore essendo collocata in collegi fortemente a rischio tali da far prevedere che il numero di elette sarà ben inferiore alla percentuale indicata. Come se non bastasse, il PD ha utilizzato il bilancino per pagare qualche cambiale in scadenza (Di Maio, Casini) e premiare compagni di coalizione i cui programmi, in molti e importanti punti, confliggono con quelli portati avanti da loro (Sinistra Italiana, Art.1, +Europa).
Quest’ultima scelta, quella dell’alleanza con SI in particolare, è stata determinante per la rottura con Azione dopo l’accordo elettorale già siglato. Tra il PD e Calenda vi era già stato uno scontro nel 2021 in occasione delle elezioni per il Sindaco di Roma. Il leader di Azione aveva chiesto primarie di coalizione per l’indicazione del candidato dichiarando che intendeva parteciparvi e impegnandosi a rispettarne l’esito. Il Pd non accettò l’invito con il risultato che Calenda, correndo da solo, conseguì un clamoroso 20% che lo rafforzò notevolmente come nuovo protagonista della scena politica nazionale. La preoccupazione del PD di potere essere sconfitto alle primarie ha fatto velo all’interesse di allargare l’area della partecipazione a chi, Calenda appunto, aveva lasciato il PD per dissenso sull’alleanza con i 5S e non per calcoli di bottega. È certo che se l’atteggiamento dei democratici fosse stato diverso lo scorso novembre, adesso la partecipazione di Azione al cartello elettorale della sinistra non sarebbe stata in discussione.
Anche con Italia Viva il PD ha assunto posizioni del tutto discriminatorie e politicamente immotivate. È vero che IV è nata da una costola del PD in modo traumatico, ma è incontestabile che l’azione di Renzi è stata fortemente coerente nel sostegno del Governo Draghi, sia per la sua formazione, sia durante la sua attività. Il rifiuto di aprire qualunque canale di confronto ha un solo possibile significato e cioè la ritorsione per quanto avvenuto nel 2019, e prima di allora per la crisi del Governo presieduto dall’attuale segretario PD. Ragioni politiche zero, se si considera l’accordo con SI dichiaratamente e formalmente contraria al Governo in carica e ad altre mille cose contenute nel programma democratico.
La politica ha regole certamente elastiche ma che vanno rispettate nelle loro linee fondamentali. In caso contrario è confusione e opportunismo che disorienta l’elettore.
Calenda e Renzi inoltre hanno assunto, per la verità più il primo che il secondo, una posizione fortemente critica nei confronti dei 5S e del loro leader. L’andamento della campagna elettorale dimostra l’esattezza della loro valutazione politica rispetto alla quale il PD appare in difficoltà e in ritardo. Da ultimo, l’abbandono immotivato della candidatura unitaria frutto di primarie condivise per la presidenza della Sicilia ne è l’esempio più evidente e clamoroso. I sondaggi attribuiscono al PD circa 4 punti in più rispetto al precedente risultato ma lontano da FdI e lontanissimo dalla coalizione di destra, e quindi, con ogni probabilità, è destinato all’opposizione. Questo PD è in condizione di fare una forte opposizione? C’è da dubitarne così come non è difficile prevedere che se dovesse restare sotto il 20% o poco sopra, si riproporrebbe il problema della sua guida.
Su un altro fronte più squisitamente politico i Democratici hanno cambiato proposito, quello di volere diventare un moderno partito del lavoro, una versione aggiornata del Labour di Blair. Scelta quest’ultima fatta non per emulazione ma per la dichiarata volontà di introdurre nel nostro Paese un partito nuovo post ideologico, libero dal retaggio del passato, rappresentato per un verso dall’eredità comunista e per altro verso dal mancato riconoscimento delle responsabilità per il crollo della prima Repubblica e per la conseguente subordinazione del gruppo dirigente rispetto all’ala giudiziaria, potente e numerosa.
Qualche tentativo in questa direzione era stato fatto ma non aveva prodotto risultati positivi per le forti resistenze opposte da chi riteneva e ritiene ancora che la linea della conservazione garantiva maggiormente il gruppo dirigente. Niente novità, nessun salto nel buio. Strade sicure anche se elettoralmente più strette e politicamente meno lineari. Cautela sui diritti civili, moderazione sui temi sociali, difesa ad oltranza dei magistrati e del loro debordante potere. Risultato: poco più del del 18% nel 2018. Alla fine però i posti erano assicurati e navigare a vista, secondo gli esponenti più importanti, è sempre meglio che farlo in mare aperto.
C’è poi da considerare che i maggiorenti hanno continuato a dare per scontato che una parte degli elettori non avrebbe comunque mai votato a destra e quindi, anche turandosi il naso, avrebbe votato o rivotato PD. Perché rischiare? Il risultato è la probabile vittoria della destra con la speranza, se dovesse avvenire, che non faccia rimpiangere il tanto odiato Cavaliere il quale non ha fatto nulla che possa definirsi liberale ma che, con l’eccezione di qualche legge particolarmente benevola per sé stesso, non ha neppure intaccato l’organizzazione dello Stato.
Sarà così anche adesso con tutte le tempeste ancora in corso? Lo vedremo presto.