LA QUESTIONE MORALE DI BERLINGUER ovvero l’ipocrisia del moderno principe
di Giuseppe Buttà
La recente vicenda dell’oro del Qatar, caduto a valigiate sulla testa di alcuni deputati della ‘sinistra’ al Parlamento europeo, ha riaperto la ‘questione morale’. Il PD, non disponendo più di eroi come Primo Greganti disposti a sacrificarsi per il partito (pare infatti che Panzeri e Giorgi stiano parlando), è passato sulla difensiva minacciando di prendere un avvocato e di costituirsi ‘parte civile’ nell’eventuale futuro processo contro quei suoi membri che, a Bruxelles, hanno fatto qualche affare.
Questa congiuntura penosa ha risvegliato il ricordo della sempre venerata intervista sulla ‘questione morale’ che, nel 1981, Enrico Berlinguer rilasciò a La Repubblica. Pagine intere di giornali, ore e ore di dibattiti televisivi continuano a dirci quanto alta fosse l’etica del partito berlingueriano, il PCI, paragonata a quella dei pigmei che allora abitavano la repubblica: una esaltazione tale da far pensare a un vero e proprio culto della personalità’.
Mi si scuserà se ora farò seguire larghi stralci della parte più toccante di quell’intervista, del ‘cinguettìo’ sulla diversità del PCI, ovvero superiorità morale e politica del partito in quanto portatore dell’interesse superiore della marcia della storia.
Berlinguer partiva da una triste constatazione: «i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia». Ancor più tristemente e «con una piega amara sulla bocca – come notava compuntamente l’intervistatore che era, nientepopodimeno, Eugenio Scalfari – , Berlinguer annunciava: «i partiti non fanno più politica».
A questo punto, l’intervistatore – nuovamente sulla via di Damasco perché, dopo l’esperienza a ‘Roma fascista’ e l’elezione al Parlamento con il PSI, Scalfari aspirava allora al ruolo di guida intellettuale di tutta la sinistra – incalza Berlinguer chiamandolo educatamente ‘signor segretario’ e chiedendogli: «la passione è finita?»
Il ‘signor segretario’ ha un sussulto: «Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono … I partiti di oggi [eccetto il PCI, naturalmente] sono soprattutto macchine di potere e di clientela ... gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti … senza perseguire il bene comune … sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania … Andreotti nel Lazio … Ma per i socialisti è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora».
Alla risposta di Berlinguer, Scalfari risponde convintamente ma amaramente: «Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose o lo accettano o non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo. Allora delle due l’una: o gli italiani hanno, come si suol dire, la classe dirigente che si meritano, oppure preferiscono questo stato di cose degradato all’ipotesi di vedere un partito comunista al governo … Che cosa vi rende così estranei o temibili agli occhi degli italiani?»
La risposta del ‘signor segretario’ è velenosa, dipinge un paese che, con le solite eccezioni, si crogiola nella corruzione: «La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati … È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti».
Scalfari incalza: «C’è dunque una sorta di schizofrenia nell’elettore?»
La diagnosi offerta da Berlinguer è scientifica: «Se vuole, la chiami così. In Sicilia, per l’aborto, quasi il 70 per cento ha votato “NO”: ma, poche settimane dopo, il 42 per cento ha votato DC … E la spiegazione sta in quello che dicevo prima: sono macchine di potere che si muovono soltanto quando è in gioco il potere … Se no, non si muovono. Quand’anche lo volessero, così come i partiti sono diventati oggi, non ne avrebbero più la capacità».
È evidente quanto fosse alto il rispetto che Berlinguer nutriva per gli elettori, per la democrazia italiana, da lui considerata come mero un sistema di mercimonio e voto di scambio, colpevole di non apprezzare l’alto patrocinio dei comunisti. E chi poteva dargli torto? Forse però un pochino di presunzione gliela si poteva imputare quando, alla domanda su quali fossero state le cause politiche che hanno provocato questo sfascio morale, Berlinguer risponde accoratamente: «Le dico quella che, secondo me, è la causa prima e decisiva: la discriminazione contro di noi».
Egli sosteneva cioè che quella che era stata la linea di fondo della storia repubblicana – determinata dai partiti del ‘centrismo’ e, poi, da quelli del centro-sinistra organico con i socialisti e fino al famoso ‘preambolo’ di Donat-Cattin, che non avevano inteso allearsi con i comunisti – fosse la causa prima della corruzione italiana. È sorprendente però come Berlinguer non comprendesse – o facesse finta di non sapere – che questa esclusione del PCI dal governo era dovuta alla sua perdurante fedeltà, ideologica e politica, a Mosca: possiamo dire, dunque, dunque che i preambolisti non avevano tutti i torti?
Scalfari aggiunge a quel punto un’altra domanda per dimostrare la sua ‘oggettività giornalistica’: «Se permette, signor segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei le descrive!».
Berlinguer risponde con un argomento inconfutabile: «In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro [e qui, senza dubbio, Berlinguer aveva ragione di stupefarsi!]… conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità».
Scalfari accetta la schermaglia: «Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste … dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?».
(Sia detto sottovoce: questo presunto patrimonio di diversità e superiorità morale era stato assunto dal partito-erede, il PD, come proprio segno distintivo e blasone; ma siccome, come sappiamo, passando di mano in mano il blasone si può consumare e mutare in un cliché abusato, oggi questo erede mostra tutta l’usura del tempo e si abbandona a mere esercitazioni di gestione del potere, a tutti i livelli: dal governo dello stato a quello del partito stesso, ormai affidato a una camarilla autoreferenziale).
Berlinguer risponde facendo quegli occhi di tigre che a Letta non è riuscito di fare:
«Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo … Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato …, ma debbano, come dice la nostra Costituzione [che, come sappiamo, grazie ai comunisti è la ‘più bella del mondo], concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato … ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo … Ho detto che i partiti hanno degenerato … Ebbene, il PCI non li ha seguiti in questa degenerazione. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?»
Scalfari, comodamente sdraiato ai piedi di Berlinguer, replica: «Mi pare che incuta paura a chi ha degenerato. Ma vi si può obiettare: voi non avete avuto l’occasione di provare la vostra onestà politica, perché al potere non ci siete mai arrivati. Chi ci dice che, in condizioni analoghe, non vi comportereste allo stesso modo?»
Berlinguer non si scompone; anzi, esibendo una ‘illibatezza’ quasi santa, risponde a muso duro: «Lei vuol dirmi che l’occasione fa l’uomo ladro. Ma c’è un fatto sul quale l’invito a riflettere: a noi hanno fatto ponti d’oro, la Dc e gli altri partiti … Ai tempi della maggioranza di solidarietà nazionale ci hanno scongiurato in tutti i modi di fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno, per partecipare anche noi al banchetto … Abbiamo sempre risposto di no. Se l’occasione fa l’uomo ladro, debbo dirle che le nostre occasioni le abbiamo avute, ma ladri non siamo diventati … ce ne siamo andati sbattendo la porta!».
D’altra parte, il partito di Berlinguer era già sazio. Un esponente importante del PCI, Gianni Cervetti – membro della segreteria del partito dal 1975, cioè in epoca berlingueriana – nel suo libro dal titolo onomatopeico, L’oro di Mosca, racconta di essere stato per un certo periodo incaricato di andare ogni anno a rendere ‘omaggio’ a Boris Ponomarêv, già fedele funzionario di Stalin e poi, dal 1955, direttore del Dipartimento internazionale del PCUS e del Dipartimento per i rapporti con i partiti comunisti occidentali: Cervetti presentava le richieste del PCI e incassava un assegno in dollari. Questa pratica durò sino alla fine degli anni Settanta quando Berlinguer decise di porvi fine ufficialmente: ma, dentro il PCI, qualcuno (Cossutta) continuò a percepire il salario. I sussidi sovietici cessarono solo con la dissoluzione dell’URSS: fu allora che il giornale del partito ebbe grandi difficoltà finanziarie. Valerio Riva, nel suo libro sull’oro da Mosca, frutto di una ricerca negli archivi del Cremlino, parla di centinaia di miliardi (cifra mai contestata dai dirigenti del PCI) incassati in 40 anni, a partire dal duo Togliatti-Secchia.
È per questo motivo che il ‘signor segretario’ si concede l’auto-assoluzione e l’auto-esaltazione da re sole. Berlinguer è fiero di se stesso e del suo partito che, a suo dire, non ha partecipato al ‘banchetto’. Egli infatti assolve il suo partito e i suoi eroici membri perché si, hanno lucrato ma non per se stessi bensì per la maggior gloria del partito: nel 1975, quando a Parma scoppiò lo scandalo delle tangenti che avevano coinvolto esponenti comunisti, in una riunione della segreteria nazionale del PCI, Berlinguer risolse salomonicamente la questione: «Occorre ammettere che ci distinguiamo dagli altri non perché non siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili ma perché, nel ricorrervi, il disinteresse personale dei nostri compagni è stato assoluto».
Et voilà, il ‘moderno principe’ si è materializzato: «sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali, in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha, come punto di riferimento, il moderno Principe stesso, e serve a incrementare il suo potere o a controllarlo. Il principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico». È questo il rapporto ‘etico’ descritto da Antonio Gramsci come necessariamente sottostante a questo ineluttabile sviluppo palingenetico della storia.
Presa questa risposta come sacrosanta verità, Scalfari insiste: «Veniamo alla seconda diversità».
Berlinguer non ha esitazioni: «Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi … che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata».
«Onorevole Berlinguer – osserva lo stupefatto Scalfari – queste cose le dicono tutti!».
Colto in fallo, Berlinguer, accampando questa volta un pedigree da fare invidia ai padri della patria di tutti i secoli, risponde con sicurezza: «Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo noi».
«Non voi soltanto!», obietta il coraggioso giornalista.
A questo punto, Berlinguer – facendo un enorme sforzo di fantasia – enuncia il suo marxismo-leninismo-gramscismo-togliattismo-berlinguerismo che ipotizza una possibile (ma non probabile) evoluzione democratica del comunismo: «È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata … conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche – e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC – non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo … giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di inoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui la causa non solo della crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?»
Ci sono due punti che meritano di essere sottolineati. Berlinguer si dichiarava favorevole alla premiazione del merito; ci chiediamo pertanto se egli, diversamente dai suoi epigoni, non avrebbe apprezzato l’idea del governo attuale di fare esplicito riferimento al merito come criterio di valore, se non come fine, che la scuola dovrebbe adottare; ci chiediamo anche se – poiché egli pensava che «la diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi [dei guasti morali oltre che fisici provocati dalla società consumistica] e nessuno se ne dà realmente carico» – sarebbe stato lieto di convivere con tanti dei suoi eredi che hanno fatto della liberalizzazione della droga una battaglia di civiltà.
Ancora più coraggiosamente, ora Scalfari sferra un colpo da KO: «Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un’offesa essere paragonato ad un socialdemocratico».
«Bè, una differenza sostanziale esiste» – ribatte il signor segretario – «La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, … vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, … Noi abbiamo messo al centro della nostra politica non solo gli interessi della classe operaia propriamente detta e delle masse lavoratrici ma anche quelli degli strati emarginati della società … non bastano più il riformismo e l’assistenzialismo: ci vuole un profondo rinnovamento … del sistema. Questa è la nostra politica … Mitterrand ha vinto su un programma per certi aspetti analogo».
Scalfari non si lascia sfuggire l’occasione di sferrare un secondo ‘uppercut’: «Vede, signor segretario, che non ha ragione di alterarsi se dico che tra voi e un serio partito socialista non ci sono grandi differenze?».
«Non mi altero affatto – risponde Berlinguer – basta intendersi sull’aggettivo serio, che per noi significa comprendere … le ragioni storiche, ideali e politiche per le quali siamo giunti a elaborare la strategia dell’eurocomunismo (o terza via, come la chiamano i socialisti francesi) … un terreno sul quale può aversi un avvicinamento tra i socialisti e i comunisti».
Scalfari, a questo punto, è costretto a gettare la spugna: «Dunque, siete un partito socialista serio…»
Berlinguer è gongolante: «nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo».
In effetti, Berlinguer era sincero quando diceva di volere che «i partiti cessino di occupare lo stato», gli ospedali, le cattedre universitarie e le scuole di ogni ordine e grado, le banche, la magistratura, i giornali (egli prometteva infatti il suo impegno per impedire che «il maggior quotidiano italiano, “il Corriere della Sera”, cadesse in mano di questo o quel partito o di una sua corrente: «noi impediremo che un grande organo di stampa come il “Corriere” faccia una così brutta fine». Poi non seppe resistere alle braccia aperte della ‘dispotica guatemalteca’, Giulia Crespi); era sincero perché, se avesse già trovato i posti occupati, non avrebbe potuto portare a termine con pieno successo la strategia di occupazione di istituzioni e società civile, che il PCI intendeva perseguire e proseguire in cerca dell’egemonia usando lo strumento del ‘compromesso storico’ – teorizzato da Berlinguer non «come una pura formula di governo o, peggio, come un accordo di potere tra noi e la DC … bensì come ricerca di una convergenza tra le componenti diverse della storia italiana, della società nazionale, anche, quindi, tra classi diverse, tale da rendere possibile una profonda trasformazione democratica (un secondo 1945, si è detto)» – per scardinare la resistenza di chi, tra i cattolici e tra i laici, non si fidava della promessa dei comunisti di lasciare almeno formalmente in vita le istituzioni democratiche.
E non si fidava – sia detto tra noi – perché, con la glorificazione del ‘principe’ – un feticcio non dissimile da quello dello stato etico – rimaneva sempre irrisolta l’incognita nascente dal giudizio classico del marxismo, anche nella versione gramsciano-berlingueriana, sulla democrazia formale, cioè di ‘facciata’ e mero strumento di potere della borghesia capitalistica; e rimaneva altresì il dubbio che un tale ‘compromesso’ altro non fosse che l’ipotesi di Gramsci: la rivoluzione senza la rivoluzione; la rivoluzione in due tempi: il momento della presa del potere per mezzo della democrazia formale e, poi, il momento della dittatura di classe (graziosamente chiamata egemonia).
In questa intervista di Scalfari a Berlinguer vi è un passaggio inquietante, quello in cui Scalfari diventa ‘indiscreto’ e pone una domanda ‘cattiva’: «Però, signor segretario, Mitterrand, appena eletto, … a proposito degli euromissili, ha detto d’essere favorevole alla loro installazione. Lei non ha mai detto nulla di simile. Tra le caratteristiche del vostro esser “diversi” non ci sarà per caso anche la tendenza al neutralismo europeo, che invece i socialdemocratici europei respingono in blocco?»
Berlinguer, quasi infastidito perché forse la questione ha a che fare con l’oro di Mosca, risponde dando un colpo al cerchio e l’altro alla botte: «Lei adesso sposta il confronto fra la politica dei socialisti francesi, dei socialisti italiani e la nostra su un altro tavolo … Ma la seguo volentieri … non mi persuadono le ultime dichiarazioni di Mitterrand, ma noi comunisti italiani possiamo condividere la dichiarazione sugli euromissili … che non chiede che l’America cessi di costruire i missili più moderni … Ma intanto si dia inizio al negoziato per diminuire i missili in Europa, anzi, per toglierli completamente, e l’Urss cessi l’installazione sei suoi SS-20 … perché se continuerà la gara … il pericolo di una guerra diverrebbe incontrollabile».
Dunque, l’America doveva ancora costruire e poi installare i suoi missili in Europa, invece l’URSS aveva già installato i suoi alle nostre porte. Tuttavia, per Berlinguer, URSS e USA erano sullo stesso piano: sembra di sentire Conte quando chiede che si cessi di dare armi all’Ucraina per difendersi.
Non so se essere oggi al soldo del Qatar, grande protettore/promotore dell’islamismo fondamentalista e del sultanato universale, sia più grave di quanto fosse allora esserlo della Mosca di Stalin, di Kruscev, di Bréžnev, che coltivava mire imperialistiche sotto la specie dell’internazionalismo comunista.