LA DISATTENZIONE ITALIANA SU SCUOLA E RICERCA

LA DISATTENZIONE ITALIANA SU SCUOLA E RICERCA

di Giuseppe Gullo

Il dibattito politico procede a strappi, spinto da emergenze vere o presunte che di volta in volta prendono la scena. Avviene così per la politica estera e i rapporti con l’Europa, per il PNRR e le difficoltà che si stanno incontrando nel rispettare i tempi richiesti dalla Comunità, per la Giustizia e il perenne scontro tra potere politico e ordine giudiziario, e poi su singole vicende più o meno personali che riguardano questo o quell’esponente di rilievo della maggioranza o dell’opposizione. I grandi temi sui quali sarebbe necessario nell’interesse del Paese aprire una discussione seria e senza pregiudizi, restano in ombra e vivono la vita grama del mantenimento dello status quo a parole contestato da tutti. La scuola fa parte di questo gruppo di importanti temi che sembrano sussidiari, quasi riempitivi di eventuali periodi di caduta di interesse dell’argomento principe del momento.
Per non avventurarsi in discussioni del tutto teoriche, è opportuno prendere le mosse dai documenti ufficiali più recenti che sono i programmi elettorali presentati dai partiti in occasione delle elezioni politiche del settembre 2022. Tra questi, il primo da esaminare è quello dello schieramento che ha vinto le elezioni e che oggi governa. In esso balzano agli occhi due punti per quanto riguarda la scuola secondaria: il proposito di tutelare in modo privilegiato la scuola paritaria e quello di incentivare l’indirizzo tecnico professionale. Sull’Università la solita tiritera sul riconoscimento del merito e la valorizzazione delle competenze.
Preliminare a ogni considerazione è l’esame dei dati economici ufficiali. ”L’Italia spende per l’istruzione 8.514 euro per studente, il 15% in meno della media delle grandi economie europee (10.000 euro). Se si guarda alla spesa pubblica, il nostro Paese investe per scuola e università poco più dell’8% del budget statale a fronte del 9,9% medio registrato nell’Unione europea”. In sostanza investiamo circa il 2% in meno della media europea. Non solo. “Stando ai dati più recenti, relativi al 2017, l’Italia ha speso 30 miliardi per la scuola secondaria, 25 per quella primaria e 5 miliardi e mezzo per l’università”. Si aggiunga che “Osservando la variazione rispetto al 2008, la scuola dell’infanzia e la primaria sono l’unico settore per cui lo stato ha aumentato il livello di spesa pubblica: circa un miliardo in più dal 2008 al 2017. Sia la scuola secondaria che l’università registrano invece una riduzione della spesa di circa 2 miliardi”.
In sostanza abbiamo speso nel periodo considerato complessivamente un miliardo in meno con l’ovvia conseguenza che è aumentato il distacco con la media europea che ci vede buoni ultimi tra i grandi Paesi dell’unione. Se poi l’esame della spesa va più in profondità, si scopre che i nostri insegnanti hanno le retribuzioni più basse, nonostante la firma del nuovo contratto che mancava da anni, che la spesa per l’aggiornamento professionale è risibile come quella per l’introduzione di nuove tecnologie, mentre la condizione dell’edilizia degli istituti  di scuola primaria e secondaria è disastrosa e spesso in stridente contrasto con le sedi di molti atenei situate in bellissimi palazzi nobiliari.
Allora? Un primo serio approccio al problema avrebbe richiesto l’inserimento nel programma di una sola frase di questo tenore: nel termine massimo della durata della legislatura la spesa complessiva per l’istruzione e la ricerca sarà elevata al livello di quella della media dei Paesi dell’Unione Europea. Fatto questo sarebbe stato possibile portare avanti alcune scelte selettive all’interno del vasto e composito mondo della pubblica istruzione. Questo impegno non avrebbe certamente risolto i problemi dell’elusione dell’obbligo scolastico, dell’abbandono della scuola, dell’adeguamento dei programmi, del reclutamento del corpo insegnante, del basso numero dei laureati nonostante il proliferare delle Università telematiche, etc. ma avrebbe dimostrato l’interesse concreto e non verbale a invertire la rotta investendo risorse sull’istruzione che sicuramente rappresenta l’avvenire delle nuove generazioni.
Per concludere il ragionamento su un tema di fondamentale importanza, sul diritto allo studio non ho letto nulla. Ciò che è certo è che l’istruzione negli ultimi anni ha fatto un ulteriore salto con le scuole private, costose, appannaggio dei ceti più abbienti e con le élite che lasciano l’Italia per Università straniere o del centro-nord, mentre le Università meridionali per mantenere un adeguato numero di iscritti hanno dovuto rivolgersi a studenti provenienti da aree meno ricche. Chissà se qualcuno si è preoccupato di andare a vedere dove studiano i figli dei politici, degli imprenditori e in generale dei ceti più abbienti. Se questi dati fossero disponibili verrebbero fuori “sorprese” veramente clamorose, penso.
Un’ultima considerazione sulla ricerca e sui fondi a essa destinati. Dal 2021 è stato istituito un fondo con la dotazione di 50 milioni di euro che diventeranno 150 nell’anno corrente. L’Unione Europea ha stabilito in un miliardo di euro la somma da ripartire agli stati membri per tale attività di cui il 10% spetterà all’Italia a fronte del 15% per Germania e Francia. Complessivamente 250 milioni circa per il Belpaese. E’ una cifra con la quale può essere programmato qualcosa di buono se spesa con criterio. Tuttavia, per avere un’idea comparativa delle cifre impegnate nella ricerca scientifica, e in primo luogo in quella sanitaria, occorre tenere presente, ad esempio, che nel 2021 la Pfizer ha investito 500 milioni di dollari nella ricerca di un farmaco contro il c.d. “fegato grasso”, patologia che colpisce il 5% della popolazione degli USA. Mezzo miliardo per la ricerca su un singolo farmaco! Se si considera la cifra globale, una sola multinazionale investe miliardi di euro l’anno, altro che 250 milioni!  Differenze abissali che purtroppo continueranno ad aumentare. Per non parlare poi degli investimenti sull’intelligenza artificiale e sulla nuova e sofisticatissima tecnologia delle telecomunicazioni.
Dipendiamo sempre più dalle grandi società che controllano sviluppo e conoscenza. E gli Stati?

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