INGROIA VERSUS PIGNATONE, UN PASSATO CHE NON PASSA

INGROIA VERSUS PIGNATONE, UN PASSATO CHE NON PASSA

di Giuseppe Gullo

L’inchiesta della procura di Caltanissetta nella quale sono indagati due ex magistrati in servizio a Palermo negli anni 90, Pignatone e Natoli, ritenuti fino ad oggi paladini della lotta alla mafia, si arricchisce del commento autorevole del Prof Fiandaca, uno dei massimi studiosi italiani di diritto penale e per decenni docente nell’Università di Palermo.
In verità è riduttivo indicare Fiandaca solo per la sua attività di studio e di insegnamento del diritto penale. Egli ha ricoperto importanti incarichi pubblici come componente del CSM e Presidente di varie commissioni ministeriali per la modifica della legislazione penale. È unanimemente indicato come uno dei massimi esperti in materia di legislazione per il contrasto alle organizzazioni mafiose. È stato candidato per il PD alle elezioni Europee del 2014 risultando il primo dei non eletti. È stato dichiaratamente contrario all’inchiesta della procura di Palermo che ha portato al processo della c.d. trattativa Stato-mafia conclusasi con una sentenza assolutoria fortemente contestata dai fautori della trattativa.
La caratura del personaggio è tale da imporre a chi legge la massima attenzione sulle tesi sostenute. Occorre distinguere le argomentazioni strettamente giuridiche sostenute dall’autore dell’articolo da quelle che riguardano aspetti diversi che potrebbero essere definiti di “politica giudiziaria”. Quanto alle prime, il giurista pone una serie di domande alle quali si può rispondere soltanto riconoscendo che l’indagine relativa a fatti di oltre trent’anni fa non ha giuridicamente alcun fondamento. Va oltre tuttavia chiedendosi “.…..se non vi è il rischio che quest’indagine nissena abbia comunque come perversa conseguenza di gettare su entrambi (gli indagati, n.d.r.) ombre del tutto immeritate?” Il peso di un tale interrogativo, considerata la provenienza e le argomentazioni che lo sostengono, è devastante. Fiandaca è perfettamente consapevole delle legittime aspettative dell’opinione pubblica e delle famiglie delle vittime di avere risposte certe, ma si chiede se questo possa travolgere ogni regola a partire da quella che prevede un termine oltre il quale il decorso del tempo estingue il reato. Aggiunge una ulteriore riflessione sulla quale meditare: “Ammesso (e non concesso) che i PM nisseni vedano giusto nel rivalutare adesso come rilevanti intercettazioni che trent’anni fa condussero invece a scelte archiviatorie, sembra molto più plausibile escludere che tali scelte derivassero da una precisa e mirata volontà di coprire sospetti mafiosi in combutta con imprenditori e politici. È più realistico e ragionevole pensare che si sia trattato di un differente approccio valutativo ancorato a criteri di giudizio propri della procura palermitana di allora; o in alternativa – perché no? – di una sottovalutazione dovuta semmai a insufficiente attenzione e superficialità di analisi. Una eventuale manchevolezza, quest’ultima, abissalmente lontana da quel dolo di favoreggiamento, che avrebbe poco verosimilmente accomunato Giammanco e Pignatone come perversi co-registi dell’insabbiamento e Natoli come ingenuo esecutore! Con una ulteriore notazione, tutt’altro che irrilevante. A sostegno dell’infondatezza dell’ipotesi accusatoria, depone infatti a nostro avviso anche il seguente dato: di un altro filone della questione mafia-appalti (in particolare del filone siciliano di cui alla nota e controversa indagine condotta dai carabinieri del Ros) si erano occupati, nello stesso periodo, altri PM come Scarpinato e Lo Forte, i quali avevano analogamente finito col formulare una richiesta di archiviazione accolta dal giudice competente. Orbene, dovremmo sospettare anche in Scarpinato e Lo Forte atteggiamenti favoritistici in concorso col capo Giammanco, o considerarli inconsapevoli strumenti in mano al predetto, oppure giudicare oggi anche loro magistrati poco competenti o superficiali?”
La conclusione ipotetica dell’illustre giurista è sbalorditiva: una parte della magistratura potrebbe accarezzare l’idea di riesumare sotto diverse spoglie il teorema della c.d. trattativa, colpendo per ora la credibilità e l’onorabilità di due magistrati simbolo della lotta alla mafia, per alzare dopo, forse, il livello dei possibili bersagli, sostituendo il mito della relazione mafia-appalti come causa scatenante delle stragi del 1992.Fantasie? Probabilmente. Ricerca della verità inconfessabile? Forse. Lotte intestine a colpi di dossier? Non si può escludere.
A sostegno dell’indagine della Procura di Caltanissetta, nelle stesse ore, arriva un’esplosiva intervista di Ingroia per molti anni sostituto a Palermo ed ex collega degli indagati. Dichiara l’ex collaboratore di Borsellino “L’indagine riguardava imprenditori mafiosi che avevano avuto a che fare direttamente con suo padre. Il padre di Pignatone era un ras della politica siciliana, un uomo vicino a Salvo Lima e quindi alla corrente andreottiana. Nelle carte che mandammo senza risultato a Caltanissetta c’era anche la storia degli appartamenti che i costruttori mafiosi oggetto dell’inchiesta Mafia-Appalti avevano venduto a prezzi ridottissimi, sostanzialmente regalati, alla famiglia Pignatone. Tra questi c’era quello di cui godeva il dottor Pignatone e dove credo abiti tuttora».
Sembra di assistere al secondo tempo, in versione molto più inquietante da film horror, della “scoperta” di qualche mese fa dell’esistenza di movimenti bancari sospetti e non giustificati sui conti correnti dell’ex capo della mobile di Palermo negli anni 90, morto da circa vent’anni. Nessuno pensò in tutto questo tempo di fare ciò che si fa come prassi, cioè accertamenti patrimoniali.
Per non dire poi della bomba atomica che Ingroia sgancia alla fine della sua intervista: «Quando arrivò una segnalazione che sarebbero stati uccisi Antonio Di Pietro e Paolo Borsellino, Di Pietro venne prelevato dai servizi e portato al sicuro in Costarica. Borsellino invece non venne nemmeno avvisato, e lo lasciarono a Palermo in pasto ai suoi carnefici. Perché?».
L’interrogativo è un macigno contro il quale si infrange da trent’anni il diritto dei cittadini di conoscere la verità. Forse solo una carica potentissima di onestà e di purificazione catartica potrebbe liberare definitivamente quella strada intrisa di sangue e di vittime innocenti. In attesa che ciò accada, si può affermare con sufficiente certezza che tutto ciò che avvenne sull’asse Palermo-Caltanissetta ha poco o nulla a che vedere con la ricerca delle responsabilità penali e molto con motivazioni nient’affatto nobili e conformi al rispetto della Costituzione e delle leggi ordinarie. Il CSM e il Ministro Guardasigilli non hanno nulla da dire al riguardo?

 

Fonte Foto: Wikipedia commons (Borsellino) –  Wikipedia Commons Jaqen CC BY-SA 3.0

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