IL VOTO SUL MES SCOMPIGLIA MAGGIORANZA E OPPOSIZIONE
di Giuseppe Gullo
Il voto alla Camera che ha negato la ratifica del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) ha fatto saltare il banco. Gli schieramenti che si sono formati tra gli oppositori alla ratifica e i favorevoli sono tali da configurare un vero e proprio terremoto politico i cui effetti saranno più evidenti tra alcuni mesi in prossimità della scadenza elettorale. Le ragioni sono molte, alcune evidenti e altre di più complessa lettura.
Il voto è arrivato dopo un periodo molto lungo nel quale si sono contrapposti i due orientamenti. Quello favorevole si faceva forte dell’approvazione già avvenuta da parte di tutti gli altri Paesi dell’euro e della pressione aperta e continua della Commissione Europea ad andare avanti. Il fronte opposto fondava la sua contrarietà sul giudizio negativo di alcuni importanti economisti, anche italiani, e del “sospetto” che il MES fosse fortemente voluto dalla Germania soprattutto per creare un ombrello protettivo ad alcune sue banche con conti traballanti. Nel dibattito che era nato si erano manifestate anche proposte di mediazione, tra le quali una che proponeva la ratifica del trattato accompagnata da un o. d. g. del Parlamento, vincolante per il Governo, che subordinasse la possibilità di ricorrere al fondo a una specifica e favorevole autorizzazione delle Camere.
Anche all’interno del Governo vi erano posizioni diverse. Da un lato quella del Ministro dell’Economia che sarebbe stato favorevole insieme a Forza Italia, mentre gli altri due partiti di maggioranza mantenevano ferme tutte le obiezioni sollevate in molte occasioni sottolineando l’inutilità per il nostro Paese in considerazione della solidità del sistema bancario.
La disputa ha avuto un’improvvisa accelerazione poco prima della scadenza del termine per pronunciarsi (31 dicembre) e in concomitanza dell’approvazione della legge di Bilancio, con il voto della Camera che ha visto Fdi e Lega, con l’aggiunta del Movimento, 5S schierati per il NO, astenuti Forza Italia e Alleanza Verdi-Sinistra, mentre PD, Azione e Italia Viva favorevoli alla ratifica. L’argomento è talmente importante e gli effetti del voto parlamentare sono così rilevanti da consentire senz’altro di affermare che è la prima, vera e importante avvisaglia di crisi della maggioranza venuta fuori dal voto popolare del settembre 2022.
Sul fronte del Governo, lo strappo con Forza Italia è profondo. Tra i partiti che hanno vinto le elezioni FI è quello più esposto alle intemperie della politica trovandosi in mezzo al guado dopo la scomparsa del leader maximo. E’ chiaro a tutti che Tajani non è in condizione di guidare con la necessaria autorevolezza una formazione nata dal carisma del suo fondatore e probabilmente destinata a scomparire lentamente, seguendo chi l’ha creata. Gli eredi legali di Berlusconi, ammesso che qualcuno abbia la voglia e la capacità di prendere in mano i destini della compagine politica fondata dal padre, sembrano avere scelto la strada dell’interlocuzione lobbystica a tutela dell’impero economico senza una sovraesposizione che potrebbe portare conseguenze “sgradevoli”, come fu per il Cavaliere. L’imminenza della scadenza elettorale ha messo la sordina al fuoco che cova in ciò che è rimasto di un Partito che ha avuto oltre il 30% dei consensi, un incendio che divamperà subito dopo le elezioni europee e sarà devastante se sostenuto da un risultato mediocre. Nell’immediato FI farà finta di niente ben sapendo che così non è.
FdI e Lega, in modo molto spregiudicato, hanno portato avanti quello che avevano sostenuto da molto tempo e cioè la necessità di far valere, con il diritto di veto, il peso della posizione italiana rispetto allo strapotere tedesco e francese. La Presidente del Consiglio sa che rischia molto. Ha scelto la strada più impervia e pericolosa con consapevolezza e coraggio, aldilà del merito del provvedimento, alla ricerca di un ruolo che le è stato fin’oggi negato. Forse più saggiamente avrebbe potuto approvare il MES con la dichiarazione di non farvi ricorso se non per sopravvenute necessità certificate dal Parlamento. Ha voluto puntare sulla posta più alta e sapremo presto, alle elezioni o subito dopo, se ha avuto ragione o se questo passaggio segnerà l’inizio del declino.
Sul fronte delle opposizioni, si è consumato uno strappo che era nella logica della politica e del suo sviluppo. I 5S, vera espressione del peggior populismo e deteriore trasformismo, hanno votato contro il Mes che lo stesso Conte, allora Presidente del Consiglio, aveva a suo tempo firmato e sostenuto con decisioni ufficiali. Il “campo largo”, se è mai esistito, si è trasformato in una palude con ampie zone di sabbie mobili, vere e proprie trappole per il PD. Conte, forte dei sondaggi che lo danno molto vicino ai Democratici, va avanti sulla strada che ha scelto incurante di ogni regola e di qualunque ragionevole logica di coalizione, puntando chiaramente a diventare l’anti Meloni e a porsi come riferimento dei populisti e degli antisistema che si annidano nell’elettorato.
Il PD, senza una guida politica lungimirante e privo di proposte credibili, recita la parte di chi nuota male e davanti alle prime onde anomale respira a fatica. Dov’è lo schieramento del salario minimo su un voto ben più pesante? Si è sciolto senza neppure far finta di volere resistere alla forza delle ragioni di un’intesa da costruire ma che è ancora cantiere appena aperto. Sarà in questo modo in tutte le prossime occasioni veramente significative nelle quali si manifesterà l’assoluta inconciliabilità dell’opportunismo qualunquista dei 5S con la visione realistica ed europeista del PD. Gli euro scettici, come i 5S che non hanno neppure un gruppo di riferimento a Strasburgo, restano quello che sono e lo dimostrano ad ogni piè sospinto. La richiesta di dimissioni del Ministro dell’Economia rappresenta la classica pagliuzza nell’occhio altrui nel disperato tentativo di nascondere la trave nel proprio.
Per venire fuori dall’angolo nel quale l’ha costretto la mancanza di una politica sostenuta da un programma di Governo, il PD deve abbandonare la ricerca di coalizioni strategiche con chi oggettivamente porta avanti istanze del tutto diverse dalle sue. Le convergenze si potranno verificare su singoli punti ma non consentiranno di colmare la distanza che separa populismo e progressismo, opportunismo ed europeismo. I Democratici debbono guardare all’area del centro, ai ceti medi democratici e produttivi, al mondo del lavoro, a chi si batte per i diritti civili con proposte e iniziative politiche non estremiste né velleitarie. Non vi sono scorciatoie!