IL MARCHESE DEL GRILLO S’È SVEJATOOO!
di Giuseppe Buttà
“Loro hanno la maggioranza in Parlamento ma non hanno la maggioranza nel Paese, perché i numeri parlano chiaro: 12,5 milioni di persone hanno votato questo Governo, ma ce ne sono 18 milioni che a votare non sono andate e altre 15 milioni che hanno votato altre forze politiche. Noi abbiamo bisogno di rappresentarli e di batterci perché questo cambiamento ci sia“.
Parole sante, dette da Landini. Il quale poi, nella foga comiziale di piazza del Popolo, si è scoperto pure fine costituzionalista e politologo discettando di riforme costituzionali ed elettorali e – lasciando da parte il gergo che, da buon comunista, aveva usato per anni sostituendo l’orrenda parola nazione con ‘paese’, più confacente alla sua cultura ‘democratica’ – si è addirittura proclamato ‘difensore della nazione’.
Forse vuole fare concorrenza alla Meloni? O è solo un aspirante al ‘peronismo’ che porta in piazza non i ‘descamisados’ bensì gli ‘incamiciati’ rossi e blu che non si vedevano da anni: una vera e propria fioritura di settarismo.
La CGIL e la sua caudataria UIL, che va all’attacco con ‘bombardieri’ obsoleti, fanno le veci del Parlamento, anzi del popolo stesso: non si capisce però perché questo nobile impulso non lo abbiano sentito quando al governo vi erano altre minoranze (leggi il PD): forse perché queste avevano ricevuto l’investitura dall’alto di un colle romano dove dicono risieda la ‘saggezza’?
Il governo Meloni s’era appena insediato e già il 13 novembre dell’anno scorso, il sindacato landiniano lo aveva accolto con questo grido di guerra e, davanti alla telecamera dell’Annunziata martire, la sua amica scodinzolante nel suo ultimo sussulto televisivo, il segretario cgiellino spiegò che «uno sciopero generale non risolve tutti i problemi … Occorre ricominciare a fare leggi che mettono vincoli sociali al mercato … Il mio compito non è quello di unire la sinistra».
No. Questo non ce lo doveva dire, non ci doveva deludere: a che serve se non è una ‘cinghia di trasmissione’?
Landini ‘s’è desto’ e non s’è trovato da solo; a tirare le tende e ad aprire i balconi c’erano gli operosi zappatori del ‘campo largo’, sia pure ancora da ‘catastare’: pare infatti che le ammucchiate predilette dalla Schlein funzionino assai poco come dimostrò per primo l’aperitivo ‘sprecato’ nel bar di Campobasso. TORNA SU
Da questo punto di vista, possiamo dire che la collezione di harakiri della sinistra sia cominciata già fin dalle primissime settimane di vita del governo Meloni. Dopo il giuramento, il governo aveva pochissimi giorni per approvare una manovra economica – già definita nelle linee generali dal governo Draghi – che consentisse di far pesare di meno sui cittadini il rincaro delle bollette energetiche e comunque di mantenere i conti dello Stato in ordine senza cadere nel pericolosissimo esercizio provvisorio. L’opposizione avrebbe avuto modo di portare in Parlamento alcune proposte per stimolare il governo e migliorare ulteriormente la legge di bilancio invece si unì alla Cgil contro la finanziaria 2023: «Sciopero generale!». Anche quest’anno, ancor prima che la legge finanziaria 2024 venisse concepita, Landini e c. hanno decretato lo sciopero, che il suo principale patron ha avuto, bontà sua, l’ardire di comparare con gli scioperi del 1943!
Anche quest’anno con il grido di guerra è stata lanciata la minaccia forte e chiara di un ‘autunno caldissimo’. A fronte di una nuova manovra di bilancio – stretta tra gli alti interessi sul debito pubblico e le intelligenti misure del governo 5S-PD che inventò il super bonus da 130 miliardi – l’opposizione sindacale e parlamentare promette una resistenza senza tregua.
L’accusa al governo è quella, molto seria e grave, di avere fatto una manovra pidocchiosa che non risolve il problema della sanità pubblica né quello delle residenze universitarie né, tantomeno, quelli dei salari bassi o delle pensioni minime, etc.; tutti problemi reali e che ci trasciniamo da anni: solo che il sindacato è stato quasi silente sotto i precedenti governi e non ha battuto ciglio né ha contestato le misure decretate dal governo PD-5S che hanno devastato l’erario.
«L’introduzione del salario minimo potrebbe favorire una fuoriuscita dall’applicazione dei contratti collettivi nazionali del lavoro rivelandosi così uno strumento per abbassare salari e tutele delle lavoratrici e dei lavoratori». Lo ha detto Giorgia Meloni in persona? Ma no. A dirlo era stato Maurizio Landini che, divenuto ‘segretario’ tutto d’un pezzo del sindacato della CGIL, il 12 marzo 2019 s’affrettò a depositare una memoria in commissione Lavoro al Senato per sottolineare i “pericoli” intrinseci in una paga minima oraria fissata per legge; una memoria in cui si può leggere, con profitto se non con diletto, che «il rischio di abbassare i salari diviene maggiormente concreto stante la diffusa struttura di piccole e micro imprese presenti nel tessuto economico italiano e la natura della validità della contrattazione collettiva nel nostro Paese … Con l’introduzione del salario minimo legale rischiamo che un numero non marginale di aziende possano, appunto, disapplicare il Ccnl di riferimento (semplicemente non aderendo a nessuna associazione di categoria), per adottare il solo salario minimo e mantenere “ad personam” … senza dover erogare né il salario accessorio né rispettare le tutele normative che il Ccnl garantisce. La struttura dell’economia italiana e le caratteristiche di molte piccole e micro imprese rischiano di favorire in misura esponenziale una vera e propria diaspora dalla contrattazione nazionale».
Qui ci sarebbe da pensare – ma non lo facciamo per non apparire maligni – che la prima preoccupazione del sindacato non sia il salario dei lavoratori quanto, piuttosto, il modo in cui questo viene fissato; forse il sindacato teme che, fissandolo per legge, il suo potere ne soffra e agita ora la bandierina del ‘salario minimo’ solo per attaccare l’attuale governo e non perché creda che sia la ricetta giusta.
A far cambiare idea alla CGIL di Landini, sul salario minimo o sul sistema sanitario in Italia, non è stata l’alta strategia politica e la sensibilità sociale di Schlein; è bastato l’insediamento del governo Meloni. A quel punto, l’anno scorso, gli oppositori dovettero pensare a una strategia nuova che incorporasse la lotta in difesa della sanità pubblica e del salario minimo nella lotta antifascista. A tutti i costi, con qualsiasi argomento bisognava arrotare le armi per “resistere, resistere, resistere”.
Passando al tema della sanità (SSN), quando Landini s’è destato, a tirare le tende c’era la Schlein, nello stesso giorno miracolosamente ubiqua, a Piazza del Popolo a Roma in difesa della sanità pubblica e a Milano per l’orgoglio gay. Elly è andata giù dura: «Oggi abbiamo letto le preoccupazioni che emergono da un rapporto della Corte dei Conti sulla situazione della sanità pubblica in 14 regioni. Il Pd sin dalla prima manovra denuncia che questo governo non mettendo i fondi alle regioni, soprattutto per i costi affrontati per il Covid ma anche per i rincari dovuti all’inflazione, sta già tagliando la sanità pubblica e quindi avvantaggiando quella privata. È una scelta di campo perché quando non metti le risorse per accorciare le liste d’attesa e per non far mancare il personale negli ospedali e nei Pronto soccorso, sta scegliendo di tagliare i servizi a cittadine e cittadini. Noi ci batteremo con forza per dire che la sanità pubblica deve essere finanziata maggiormente: bisogna progettare la sanità del futuro e il Pd continuerà a battersi in questa direzione».
E c’era Conte, ancora assonnato dopo gli anni di letargo trascorsi a presiedere l’alto Consiglio, che non è stato da meno: «Non accetteremo che la sanità continui a fare la Cenerentola. Stiamo tornando ai momenti peggiori del passato. Sembra che questo governo non abbia tratto nessuna lezione dalla pandemia. Lo stiamo vedendo anche con i fondi Pnrr che rischiano di non poter essere spesi. Siamo qui per ribadire la centralità del SSN e per dire che non accetteremo altri tagli».
Conte non ha chiarito se si tratti di ‘altri tagli’ oltre quelli fatti dal suo governo (ben 2 miliardi + 1): come ha documentato la Fondazione GIMBE, dal governo Monti (2011) in poi il finanziamento annuo del SSN è diminuito in media di 0,6 punti in rapporto al PIL vale a dire di circa 40 miliardi in 10 anni.
A fare i conti c’era pure ‘La Repubblica’ che, forte delle sue indiscusse capacità di calcolo, ha addebitato, “correttamente” come al solito, tutto al governo Meloni partendo dalle misere ‘briciole’ aggiunte ai 126 miliardi per il SSN nella legge finanziaria del prossimo anno. A che servono, si chiede il ‘glorioso’ giornale’ ex-scalfariano, solo 2 miliardi? Non bastano nemmeno a coprire l’inflazione!
È vero. Ma non si aggiunge che le casse dello Stato sono state vuotate dalle misure generose come il super bonus 110% inventato dal governo Conte 2, dalle guerre in corso, dai tassi d’interesse della BCE.
Finalmente è stato trovato il colpevole, o meglio il ‘capro espiatorio’, e l’atto d’accusa è stato formulato inappellabilmente contro il governo di Giorgia Meloni: «Lunghissime liste di attesa, Pronto Soccorso allo stremo, medici di medicina generale assenti in molte aree del paese, massiccio ricorso alle cure del privato (con relativo esborso dalle tasche dei cittadini) per far fronte al deserto sanitario del pubblico, generale sotto-finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, interi settori – dalla Salute Mentale all’assistenza agli anziani – abbandonati a se stessi».
Per essere più preciso e incisivo, Landini nel suo atto d’accusa ha sciorinato una grande cultura scomodando pure Darwin: «Il governo Meloni definanzia la sanità pubblica e usa la sanità privata per dare e togliere cioè per praticare darwinianamente una precisa distribuzione del reddito all’insegna dell’iniquità. La misura relativa al cuneo fiscale quantificata in 3 mld, conferma l’idea di affidare al reddito la funzione di selezionare darwinianamente i bisogni di salute della nostra popolazione; è palesemente la foglia di fico per nascondere l’indecenza di politiche apertamente contro i diritti e apertamente a favore dei più forti, non dei più deboli». Poi Landini ha aggiunto i suoi rimedi programmatici: «Abbiamo bisogno di investire e di non perdere neanche un euro del PNRR, di fare assunzioni e di garantire i servizi sul territorio».
Sono tutti dati e problemi reali e preoccupanti: secondo Landini, la progressiva riduzione del numero di medici e infermieri, essendo in corso da almeno venti anni, va tutta addebitata all’attuale governo. Bisogna però che qualcuno ricordi a Landini e Schlein che, in effetti, una delle cause di questa scarsità è stata l’introduzione del numero chiuso nelle Università (L. 264/1999) risalente dunque all’epoca dei gloriosi governi “olivicoli” del centrosinistra e giustificata dalla necessità (reale ed emergenziale) di proporzionare la formazione di medici e infermieri alla capacità delle nostre strutture di istruzione superiore, a quel tempo del tutto insufficienti. Scelta poi ulteriormente perfezionata con la cura dimagrante dei servizi ospedalieri prescritta dal senatore a vita Monti.
Ma, da allora, se non fosse stato per lo sviluppo di università private, poco o nulla è stato fatto per incrementare l’offerta formativa. Da allora, nulla è stato più fatto in termini di riequilibrio territoriale delle strutture pubbliche della sanità: i posti letto sono diminuiti di parecchie migliaia e la modernizzazione stenta ad arrivare oltre Eboli. A questo proposito forse la storia può aiutarci a capire meglio la situazione: fino a qualche decennio fa, in Calabria non vi erano le strutture formative necessarie né gli ospedali altamente specializzati che ne sono lo strumento. Dunque vi è un gap centenario che bisogna recuperare e certamente non lo si fa in sei mesi, in un anno e nemmeno in due a prescindere dalle risorse impiegate né – come vorrebbero Schlein e Landini – con una crociata contro la sanità privata che, spesso, si è rivelata decisiva in molti settori e regioni per colmare le lacune della sanità pubblica, spesso supercostosa ma inefficiente.
Naturalmente, l’opposizione all’autonomia differenziata è uno dei cavalli di battaglia dell’armata Landini – favorevole al centralismo democratico’ di sovietica memoria – che accusa i sostenitori di volere ‘spaccare l’Italia e introdurre nuove diseguaglianze’: anche in questo caso dobbiamo ricordare a Schlein e Landini che, a inventare l’autonomia differenziata, è stato il loro PD con la riforma del Titolo V della Costituzione, che è del 2001.
Lo ‘showdown’ finale si è avuto a metà novembre quando Landini ha fatto di tutto per farsi precettare da Salvini: era questo l’unico fine reale dello sciopero, cioè fare suonare la grancassa – che ci ha assordato per giorni e giorni soprattutto da alcuni schermi tv e prime pagine di giornali ‘autorevoli’ – contro il governo ‘autoritario’ o peggio, naturalmente sottacendo che la legge che regola gli scioperi nei servizi pubblici essenziali è del 1990.
Forse per parare la paventata scalata di Landini all’agognato ‘campo largo’, Romano Prodi, nella sua recente ‘omelia’ predicata nel contro-Atreju indetto da Schlein, ha designato Elly quale “federatore/trice” della sinistra nella speranza di riprendersi «i 6 milioni di voti persi in 15 anni e trovare una nuova strada per costruire un rapporto forte con la società». Non so se dicesse sul serio ma non disperi: anche se Elly fallisse, il PD ha altre risorse nei due presìdi saldamente tenuti, uno di fronte all’altro, sul colle più alto.
Certo, ad essere generosi, la Schlein potrà concepire qualche idea solo prendendo un utero in affitto: il dibattito politico da lei promosso è bensì del tutto degno dell’Accademia della Crusca con le diatribe infinite sulle parole (senatore o senatrice?), sul galateo, sui ‘palchi reali’, ma è anche del tutto sterile. È per questo che Elly si è appropriata, con destrezza, di una geniale dottrina criminologica che – in occasione dell’assassinio di Giulia – la sorella della vittima, pur sconvolta dall’orrendo crimine, ha formulato con freddezza scientifica trovando la causa di tali delitti: «I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro». È il ‘patriarcato’ che insegna lo stupro e «legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna!». Può darsi. Ma temo che credesse di trovarsi tra i talebani o tra i pasdaran.
Elly, a sua volta, ha avuto l’altrettanto geniale idea di ’buttare in politica’ l’assassinio della povera Giulia e il patriarcato e, da quando siamo stati illuminati da questa geniale scoperta, non c’è “progressista” che non parli di patriarcato: alla ‘segretaria democratica’ – che si è pure dichiarata disposta a rinunciare al conflitto con Valditara pur di regalare alle scuole italiane un ‘corso di affettività e controcultura sessuale secondo Schlein’ – non è parso vero di poter avere finalmente un’idea da spendere e un atout da giocare alle prossime elezioni europee: c’è da scommettere che per la brillante criminologa autodidatta che ispira la Schlein si apra ora la strada verso Bruxelles.
Tutti vogliono cambiare la ‘cultura dei padri’ che, se responsabile di tale violenza ‘di genere’, va certamente combattuta e sconfitta: non importa se occorrerà qualche secolo (non sono bastati duemila anni di cristianesimo come non basterà qualche insegnamento nelle scuole) né importa se dovremo convertire anche le falangi di immigrati, ora ‘accolti come una ‘risorsa’ per il nostro welfare futuro, ma che spesso nutrono idee tali da far rimpiangere il patriarcato italico.
Nessuno invece parla della necessità di cambiare anche gli ‘stili di vita’ dei figli, aperti a ogni genere di sperimentazione e di avventura anche a costo del rischio di farsi ammazzare dall’amante geloso, dall’invidioso, dal pazzo o dal semplicemente sadico – che non è necessariamente un maschio o una femmina ma può essere anche un q (ci chiediamo: se fosse un q, sarebbe ugualmente un patriarcalista?) – o dallo stupratore incontrato in una strada al buio, in una terrazza elegante, in una discoteca o in un ‘rave party’ con tanto di ecstasy.
Nell’occasione, non poteva mancare l’attacco a Salvini al quale – per avere detto che, se colpevole, l‘accusato dell’omicidio di Giulia dovrebbe essere mandato all’ergastolo – viene addebitato il disconoscimento del patriarcato come causa dei femminicidi.
Il povero Salvini non ne azzecca una! Appena apre bocca, tutti gli saltano addosso, si tratti del Ponte sullo Stretto di Messina o della precettazione dei ferrovieri in ‘sciopero’, come dice Landini, o del lapalissiano principio dello ‘stato di diritto’: il giusto processo anche per Barbablù.
Fonte Foto: Wikimedia Commons – Pubblico Dominio