I LAVORI CHE GLI ITALIANI NON VOGLIONO FARE E LA CRISI DELL’AGRICOLTURA
di Giuseppe Gullo
Il Presidente della Coldiretti e quelli delle maggiori organizzazioni degli agricoltori hanno rivolto un allarmato appello al Governo affinché aumenti la quota di lavoratori immigrati portandola a 100.000 unità dagli attuali 42.000. La conseguenza del mancato aumento sarà l’impossibilità di raccogliere una grande quantità di prodotti che resteranno a marcire nei campi. È superfluo sottolineare l’enorme gravità delle conseguenze economiche su tutto il comparto, sui prezzi dei prodotti, sui bilanci familiari e in ultima analisi sull’intero Paese.
Cosa accade? Un fatto assolutamente previsto, di cui si è parlato in mille occasioni. L’agricoltura è da molti anni in una crisi divenuta endemica. Pur essendo in costante calo ormai da molti decenni, essa rappresenta ancora il 2,2 % del PIL. Basti pensare che negli anni 60 del secolo scorso l’incidenza dell’agricoltura era del 15%. Il calo produttivo e l’aumento dei costi dei beni acquistati ha portato a un saldo negativo della bilancia dei pagamenti nel settore per circa 380 milioni di euro che gravano evidentemente sul bilancio complessivo del Paese. Tra i costi di produzione, è molto elevato quello relativo alla manodopera per due ragioni: la prima è collegata all’indisponibilità dei lavoratori italiani a occuparsi in agricoltura per la pesantezza del lavoro, la bassa retribuzione, la precarietà e la difficoltà a supplire con manodopera comunitaria e/o extracomunitaria. La seconda è dovuta all’elevato costo unitario di ciascun addetto a causa dell’incidenza degli oneri fiscali e previdenziali che è, in parte, la causa dell’abnorme ricorso al lavoro nero con fenomeni di vera e proprio delinquenza organizzata troppo a lungo tollerata.
Il dato che emerge da quanto diciamo è che abbiamo bisogno di manodopera per tutti i comparti, non solo per l’agricoltura. Sia il terziario, di gran lunga il più importante in termini di PIL, sia quello industriale che segue a notevole distanza, a breve resteranno senza addetti e non saranno in condizione di soddisfare la domanda. Ed è sotto gli occhi di tutti che una quantità di lavori vengono espletati quasi esclusivamente da personale extra comunitario. Badanti, collaborazioni domestiche, lavapiatti, addetti alle pulizie, muratori, etc., sono quasi totalmente lavoratori che provengono da Stati esterni all’UE e così sarà anche per il futuro.
Per avere conferma, se ce ne fosse bisogno, basta guardare a quanto accade nei Paesi Europei che hanno un’economia più forte e sviluppata della nostra. I dati ufficiali del 2021 danno una fotografia precisa della situazione. I dati dei richiedenti sono questi: Germania (148.200) Francia (103.800), Spagna (62.100), Italia (43.900). Sgomberato il campo dalle polemiche più o meno politiche e dalle strumentalizzazioni di cui si è fatto alfiere Salvini, il fatto è che siamo quarti in Europa per accoglienza. Coloro che sbarcano sulle nostre coste non intendono restarci e fanno di tutto per raggiungere gli altri Paesi europei. Questo spiega pienamente la carenza di manodopera nella quale versa la nostra economia e in particolare alcuni settori di essa. Il nostro è un Paese che ha una natalità bassissima e un conseguente saldo negativo tra nati e deceduti, un aumento della durata media della vita e quindi una popolazione sempre più anziana, un rifiuto costante e crescente della popolazione attiva ad accettare lavori ritenuti particolarmente faticosi e/o socialmente inferiori. Questa situazione si aggraverà e molto presto avremo bisogno urgente di centinaia di migliaia di lavoratori, pena la recessione.
Queste sole osservazioni sono più che sufficienti per attuare una saggia politica d’immigrazione e integrazione di chi viene nel nostro Paese, senza necessità di dividersi su questioni attinenti al dovere di accoglienza e di solidarietà, che è sacrosanto ma che serve solo a dividere e a nascondere la realtà dei fatti.
Nell’agricoltura in particolare, nella quale abbiamo perduto alcuni primati mondiali che provenivano dalle condizioni climatiche e dalla capacità degli operatori – mi riferisco, per esempio, alla coltivazione e alla trasformazione degli agrumi nelle quali la mia Città, Messina, vantava un’eccellenza assoluta – la possibilità di avere la disponibilità di manodopera esperta, che possa sostituire quella che ha abbandonato le campagne e che non intende ritornarci, è forse l’ultima occasione per invertire un senso di marcia in una strada senza uscite che ruota intorno alla spirale “bassa produttività, basso reddito, calo della produzione, abbandono delle campagne”.
C’è forse qualche isolata eccezione: in controtendenza, il settore vitivinicolo ha avuto negli ultimi anni un’autentica esplosione che ha fatto crescere la produzione, la qualità del vino e l’export. La Sicilia che, nonostante il clima e l’estensione, viveva nel settore una vita grama con prodotti di modesta qualità sta vivendo un vero e proprio rinascimento con importanti investitori del nord che si contendono i terreni della zona occidentale, e con i vini e i vigneti dell’Etna che hanno raggiunto quotazioni assolutamente impensabili. Anche questa è una strada già ben lastricata come può essere quella della produzione dell’olio e un incremento delle piantagioni di mandorle, pistacchi, melograni , mango e kiwi. Occorrono investimenti, imprenditori all’altezza e manodopera in abbondanza.