COMMINARE E IRROGARE: MENTALITA’ GIURIDICA E INDIRIZZO POLITICO*
di Pietro Di Muccio de Quattro
1) Il verbo comminare nel senso di “infliggere” una condanna non è adoperato soltanto da avvocati e magistrati, ma anche dal legislatore. Il significato originario di comminare (dal latino comminari “minacciare”) viene esteso alle accezioni improprie di “irrogare”, “applicare”. Infatti, la legge commina la pena ai trasgressori oppure il risarcimento del danno; il giudice applica, irroga, infligge la pena oppure il risarcimento. C’è una bella differenza. Eppure, autorevoli dizionari (Zingarelli, De Mauro) avvalorano l’estensione. Nel linguaggio comune, orale e scritto, specialmente dei media, prevale l’estensione impropria sul significato proprio. Simili trasposizioni, mediante le quali un vocabolo prende un “senso traslato” per un rapporto di consequenzialità, abbondano nell’evoluzione della lingua e, affievolendosi la conoscenza dell’etimo, alla lunga s‘impongono fino a cancellare il significato originario.
Nondimeno, dallo scambio tra “comminare” e “irrogare/infliggere/applicare” tendo a ricavare l’idea, magari azzardata, che la confusione sia anche indicativa di una certa mentalità giuridica che plasma i legislatori e li accomuna indistintamente nella stessa ideologia politica. Insomma, nel nostro caso, l’improprietà rispetto all’etimo, legittimata dall’uso, comporta conseguenze sulla realtà implicata dalla definizione. Detto alla buona, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, dove affogano le buone intenzioni dei legislatori, troppo spesso dimentichi che le norme penali devono avere il carattere imprescindibile dell’effettività concreta, il che vuol dire che non bisogna confondere il vigore astratto del precetto con il vigore concreto dell’applicazione reale. Tra la certezza della pena nella norma, l’applicazione della pena nel giudizio, l’espiazione della pena in fatto, gli ostacoli non mancano mai e il procedimento appare spesso un labirinto addirittura. La mente del legislatore, pur tradotta in comando della legge, spesso resta ciò nonostante sulla carta della legge facendone una legge di carta, alla stregua di grida manzoniane. Bisogna comunque aggiungere che la radice ultima della confusione tra comminare e irrogare è più profonda, di natura antropologica e filosofica come già notava Herbert Spencer nel 1891: “Un errore fondamentale che pervade il pensiero di quasi tutti i partiti è pensare che contro i mali siano possibili immediati e radicali rimedi” (Dalla libertà alla schiavitù, IBLlibri, Torino, 2016, pag. 42).
Da allora, purtroppo, l’interventismo legislativo ovvero il positivismo giuridico hanno avuto una crescita esponenziale, tanto che oggi al benché minimo prurito, che un cittadino lamenti, s’alza nel Paese la partecipata comprensione e la corale invocazione a soccorrerlo: “Sia approvata subitissimamente una legge per farglielo grattare!” Che poi la medicina venga somministrata e guarisca, è tutt’altra cosa.
2) La mentalità giuridica e l’ideologia politica affioranti dalla commistione tra comminare e irrogare connotano la vita della legge nell’esperienza italiana. Ne prendo due casi, che, sebbene diversi, sono tuttavia esemplari ed esemplificativi del genere.
Il primo caso l’ha riportato Giancarlo Lehner sull’Opinione del 21 novembre 2024. Sono stati assolti diciotto anarchici che per anni occuparono l’ex casa cantoniera di Oulx. “Gli anarchici, infatti, hanno convinto il tribunale che occuparono a fin di bene, ovvero per fornire degno riparo ai migranti, che facevano tappa a Oulx, in procinto di varcare illegalmente il confine e penetrare in Francia”. Il motivo dell’assoluzione dal reato di occupazione abusiva sarebbe stato l’articolo 54 del codice penale: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. Se la fattispecie è come la descrive Lehner, l’applicazione dell’articolo 54 pare pretestuosa a colpo d’occhio da tutti i punti di vista. Sembra bizzarro che gli occupanti avessero programmato l’occupazione a fin di bene di altri, compiendo “due illegalità”: la loro e l’occupazione dei clandestini, pretesamene esposti al “pericolo attuale di danno grave alla persona non altrimenti evitabile”. Lehner conclude che “occupare per aiutare equivale a reato consentito dalla legge”. In effetti il reato legale, configurato dall’acrobatica applicazione dell’articolo 54, potreste dirmi che è creatura di giudici, non di legislatori. Epperò lo slittamento semantico risulta evidente perché, all’atto pratico, la minaccia della legge non viene messa in esecuzione.
Il secondo caso non è meno istruttivo ed ha analogie con il primo, ma in senso opposto. L’ha riportato Cesare Giuzzi sul Corriere della Sera del 15 novembre 2024. La magistratura ha condannato il ministero dell’Interno a risarcire i danni per il mancato sgombero di un immobile occupato da ventinove anni (sic!). Dopo una battaglia legale di decenni (sic!), i proprietari dell’edificio hanno avuto giustizia in denaro (tre milioni di euro), non essendo riusciti, né con le buone né con le cattive, a rientrare in possesso della proprietà, occupata da collettivi sociali (sic!) che, all’evidenza, intendono la socialità come collettivismo ad uso proprio. “La proprietà ha chiesto più volte alla prefettura di eseguire lo sgombero: procedura mai portata a termine, prima per ragioni di ordine pubblico, poi perché nel frattempo il Comune aveva tentata una mediazione (sic!) con i proprietari non andata a buon fine. I legali della società proprietaria hanno sostenuto che la mancata messa a disposizione della forza pubblica per oltre 18 anni costituisca un illecito da cui è derivato un danno ingiusto”. Nel dare torto al ministero dell’Interno, condannandolo ai danni, la Corte d’appello ha usato una motivazione impeccabile, che dovrebbe essere considerata come massima giurisprudenziale insuperabile, il che non è nella vita di tutti i giorni, dove piuttosto prevale il contrario: “Le ragioni di tutela dell’ordine pubblico non possono giustificare la mancata esecuzione del provvedimento di rilascio, altrimenti il diritto del cittadino verrebbe sacrificato a fronte della condotta delittuosa di terzi”. Notare bene: nel primo caso, l’occupazione resta un reato impunito e gli autori vengono assolti perché “legittimati” dallo scopo sebbene illecito; nel secondo caso, l’occupazione pure rimane un reato impunito e gli autori non sono penalizzati in alcun modo, mentre è il governo (che avrebbe dovuto impedirlo o impedire che perdurasse) a dover risarcire il danno con i soldi dell’erario, cioè dei contribuenti.
3) Succede troppe volte che la politica si appaghi di comminare soltanto, disinteressandosi di irrogare, sicché suppone, o finge, di rafforzare l’effettività del precetto mediante l’aumento della pena. Così, mentre le norme proliferano, aggiunge all’illusione propria l’inganno dei cittadini, che giudicano dai fatti reali (law in action) anziché dalle ragioni della legge (law in the books). In materia di occupazione di immobili conta meno la pena edittale che l’immediata espulsione dell’occupante, anche agli altri immaginabili fini perseguiti dallo Stato di diritto. Affastellare aggravamenti su aggravamenti serve a poco se manca la determinazione politica di far seguire immediatamente la sanzione alla violazione. Prescindiamo pure dall’alquanto desueto articolo 55 del codice di procedura penale (“La polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori”), resta che legislatori, governanti, magistrati, parlando in generale, sembrano aver dimenticato un caposaldo del diritto romano e vivaddio italiano: “Spoliatus ante omnia restituendus.” Chi sia stato spogliato deve essere anzitutto reintegrato. In ogni senso.
*Articolo e Foto tratti da BeeMagazine del 07.12.2024