Anno 732, battaglia di Poitiers: per la prima volta appaiono gli europei che fermano i musulmani*
di Gianludovico de Martino
Chi si ricorda del Sacro Romano Impero Germanico?
Da Carlo Magno in poi, e riallacciandosi all’eredità imperiale romana, è stato per un migliaio di anni al centro della storia europea, finché nel 1806 l’ultimo Imperatore Francesco II d’Asburgo – che si era da poco intitolato Imperatore d’Austria – abdicò e lo sciolse, essendo oramai evidente che la veneranda istituzione aveva perso la sua ragione di essere. Anzi, essa era in procinto di essere fagocitata in funzione antiaustriaca dalla Francia, storico avversario. Napoleone – da un paio di anni Imperatore dei Francesi – con l’elevazione a regno di alcuni principati tedeschi filofrancesi aveva sovvertito la “governance”. Le finalità del Sacro Romano Impero Germanico, in sostanza, non corrispondevano più agli interessi dell’azionista di maggioranza.
La creazione carolingia è certamente presente nel DNA dell’idea di Europa in termini di anelito all’unità politica e di specifica identità culturale che al continente europeo erano state date dai Romani. Idee che, anche per il tramite del Sacro Romano Impero Germanico, si sono estese e consolidate nelle terre ad oriente del Reno, la cui conquista era stata accantonata da Roma dopo la sconfitta di Teutoburgo.
Alla fin dei conti, si può argomentare che ciò che si intende per “europeo” è una comune radice culturale greco-romana, successivamente intrecciatasi al cristianesimo, innestatasi nelle regioni dell’Impero Romano e sopravvissutavi in varia misura. D’altro canto, il termine “europei” compare per la prima volta dopo la battaglia di Poitiers del 732 per indicare i componenti della coalizione che, sotto il comando di Carlo Martello, fermarono l’avanzata musulmana.
L’idea dell’unificazione politica dell’Europa venne successivamente accarezzata da Napoleone – eccitando nel contempo lo spirito nazionalista – e nel XX secolo da Hitler: progetti effimeri la cui fine venne in entrambi i casi accelerata dalle loro guerre contro la Russia.
Anche l’unione monetaria europea ha un suo pedigree: l’Unione Monetaria Latina dal 1865 al 1927 e le idee di Banca d’Europa in elaborazione in Germania nel 1940-1941. Tra l’altro, il nuovo ordine mondiale prevedeva una Comunità Economica Europea con un sistema monetario imperniato sul Reichsmark. L’abolizione delle valute nazionali era giudicata in una prima fase impolitica. Il Reichsmark e il dollaro americano sarebbero state le due valute di riserva mondiali.
Le ultime elezioni europee mostrano un lieve aumento dell’affluenza alle urne che si è attestato poco sopra il 51%. Più che dall’obbligatorietà del voto in alcuni paesi dell’Unione, ciò è probabilmente dipeso dall’estensione del voto ai sedicenni in Germania e in Belgio.
In che misura l’abbassamento dell’età per il voto sia un vantaggio per il funzionamento di una democrazia è discutibile. Può anzi essere fattore di nuove forme di tirannia. L’età minima del voto era storicamente fissata a ventuno anni, che era anche considerata quella della maggiore età. Un ventunenne del 1900 o del 1960 aveva già lavoro, compiuto gli studi, responsabilità, si manteneva da solo e contribuiva al bilancio familiare e così via. Si partiva dall’assunto che avesse già raggiunto la maturità necessaria per partecipare alla formazione del processo decisionale della società in cui era inserito. Poi è venuta la moda dell’abbassamento a diciotto anni proprio mentre nelle società occidentali si manifestava una tendenza – ora sempre più accentuata – alla procrastinazione della transizione dalla fase adolescenziale a quella adulta.
La politica è oggi afflitta dalla quiescenza dello spirito critico e del pragmatismo in un quadro generale di trionfo della sconoscenza e di rinuncia al metodo scientifico, nonché di una formazione scolastica dai crescenti connotati fideistici e catechistici. Il voto ai sedicenni acuisce il problema. Quanti di loro sanno chi era Altiero Spinelli? O Carlo Magno? Carneade?
Il basso livello di interesse per le consultazioni elettorali, siano esse europee o nazionali, è d’altra parte anche il riflesso della scarsità se non assenza di proposte politiche interessanti. Oggi si può avere una maggioranza assoluta con il 25% del voto.
Grazie agli strumenti della propaganda e della mobilitazione attraverso i social, si intravede anche la possibilità di un inquietante futuro di parlamentari eletti per circostanze oggettive, come la qualità di detenuto o parente di vittima a vario titolo, o il loro conclamato sostegno a generiche cause di varia natura, senza nessun programma specifico.
Nell’immediato, si tratta ora di trovare nuovi equilibri nel Parlamento Europeo per una maggioranza all’insegna di una sostanziale continuità. Più tardi arriverà l’onda lunga dei riflessi interni del voto, quali le elezioni anticipate in Francia. Ma difficilmente sarà uno tsunami.
Sulle questioni cruciali, all’atto pratico, non esistono infatti significative differenze tra partiti. Le tendenze sono d’altra parte le stesse dell’espressione politica a livello nazionale.
L’ispirazione della costruzione europea era anche e soprattutto di natura economica, a cominciare dalla CECA istituita nel 1952 per evitare nuove sanguinose confrontazioni tra Francia e Germania per il controllo di regioni ricche di materie prime e storicamente oggetto di rivendicazioni territoriali. In una più ampia prospettiva, all’origine i fondatori della allora Comunità Europea avevano come riferimento il modello economico del “capitalismo renano” – che recepiva idee corporative – integrato con un approccio tecnocratico regolatorio caro alla Francia, come contraltare al “capitalismo anglo-sassone”.
Questa diversa impostazione culturale appare oggi difficilmente percettibile. Le politiche elaborate e in fase di attuazione sono sostanzialmente le stesse sulle due sponde della Manica e dell’Atlantico. I processi decisionali dell’Occidente intero hanno preso una deriva che rischia di comprimere il ruolo delle istituzioni rappresentative e degli organi di governo a quello di mera cinghia di trasmissione delle istanze degli interessi economici di una “dittatura dei produttori e dei distributori”, che è di fatto venuta a instaurarsi, con buona pace di quella del proletariato e a concreta dimostrazione della fallacia della teoria del plusvalore. Un macroscopico conflitto di interessi che vede produttori e distributori in prima linea a formulare politiche e interventi, ammantandosi anche del ruolo di benefattori dell’umanità e salvatori del pianeta.
Su tutto giganteggia l’idea prometeica della mitigazione del cambiamento climatico – acriticamente adottata dal livello politico – per arrivare alla “neutralità” a metà secolo e che comporterebbe un investimento stimato in 9000 miliardi di dollari l’anno. La transizione verde già in atto da anni si traduce in un incremento di tassazione e dei costi industriali e dei servizi essenziali, nonché in misure di controllo e coercizione. Un disastro soprattutto per l’Europa. Peraltro, scientificamente non vi è certezza che il cambiamento climatico sia causato dall’uomo. Tutte le predizioni dei modelli si sono rivelate errate. È invece certo che in epoca romana la temperatura era più calda, secondo alcuni studi anche di 5 gradi, che nel XV secolo i ghiacciai alpini erano meno estesi di oggi, che la Groenlandia così chiamavasi perché fertile, che nel 1491 la foresta amazzonica non c’era e che una delle cause della Rivoluzione francese è stata la crisi agricola e fiscale causata dalla piccola glaciazione dalla quale stiamo ora uscendo. La nuova pietra filosofale è il contenimento dell’incremento della temperatura a 1,5°.
L’AI è un altro esempio: si sovvenziona l’industria del settore per sviluppare un prodotto che, a prescindere dal devastante impatto occupazionale, richiederà ulteriori massicci incentivi e investimenti in termini di affidabilità e sicurezza del suo impiego e la cui effettiva utilità resta comunque tutta da dimostrare. Luigi XV, a uno scienziato che gli illustrava un’arma segreta che avrebbe assicurato la superiorità strategica della Francia, rispose che non se ne parlava proprio, ordinò la distruzione del progetto e vincolò lo scienziato al silenzio.
L’Occidente cerca anche di imporre ai paesi meno sviluppati restrizioni alla loro crescita economico-sociale, fondamentalmente tentando di precludere loro l’utilizzo dell’energia fossile.
Il flusso migratorio dall’Africa subsahariana viene trattato in termini di incremento dell’accoglienza e delle misure di integrazione, e si sostiene la tesi della sua necessità e ineluttabilità per assicurare forza lavoro per i paesi europei.
Ciò mentre ci si è ormai assuefatti all’idea che una parte della popolazione autoctona europea non lavorerà mai. Il loro mantenimento come consumatori marginali grava in varia misura su un welfare finanziato con alti livelli di tassazione e a detrimento di investimenti produttivi. E se invece di un fenomeno di migrazione economica si trattasse di neocolonialismo islamico?
Nel medio termine un elemento chiave per ridurre le pressioni migratorie sarebbe il controllo delle nascite. La Cina è riuscita a tirare fuori dalla miseria più nera mezzo miliardo di persone e a stabilizzare la popolazione. Rispetto all’Africa sembra invece esserci un’eccezione culturale. L’argomento è tabù.
Il futuro del progetto europeo dipende non tanto dall’ulteriore sviluppo della sua architettura istituzionale quanto dalla capacità della classe politica di interpretare le aspettative dei cittadini europei e di elaborare adeguate proposte politiche. Occorre una effettiva dialettica politica interna e recuperare la consapevolezza che i contenuti possono, anzi devono, cambiare in funzione dell’analisi critica dell’efficacia delle politiche intraprese e di una pragmatica valutazione del contesto complessivo e dell’ordine delle priorità.
Soprattutto occorrerebbe uno sforzo propositivo, globalmente spendibile, dai tratti di originalità europei, rispetto alle principali questioni economiche e di sicurezza. Va scongiurato il rischio di un appiattimento dell’Unione Europea, quasi fosse stata oggetto di un take over, su posizioni elaborate esternamente ad essa – in particolare se espressione della “dittatura dei produttori e distributori” – che a lungo andare, in analogia con quanto successe con il Sacro Romano Impero Germanico, potrebbe far ritenere l’istituzione superflua o comunque di scarsa utilità.