AGENDA POLITICA DI “DEMOCRAZIA LIBERALE”
DALLA PARTE DEI CITTADINI PER PORTARE ANCHE IN ITALIA IL LIBERALISMO EUROPEO DEL XXI SECOLO
A) PREAMBOLO.
L’Italia politica, se confrontata cogli altri Stati dell’Europa, è un ben strano Paese: dappertutto i partiti si dividono e si confrontano sulla base di precise opzioni ideologiche, assumendo le denominazioni che di volta in volta corrispondono alle rispettive idee della società in cui operano, proponendosi ai cittadini come liberali, popolari, socialisti, conservatori, sinistra o destra radicale, etc., ognuno di essi organizzato in partiti; in Italia invece, nella c. d. seconda Repubblica, le organizzazioni politiche, nel tentativo di esorcizzare il discredito che avevano accumulato all’inizio degli anni novanta, hanno cessato di chiamarsi partiti e hanno assunto le più varie denominazioni, ricorrendo alla botanica (la Quercia, l’Ulivo, la Margherita. La Rosa), alla zoologia (l’Asinello, le Api, il Gabbiano), all’astrologia (l’Arcobaleno, il Sole, 5Stelle), al tifo calcistico (Forza Italia).
La distorsione della proposta politica ha raggiunto il suo apice con la personalizzazione dei contrassegni elettorali, favorita dalle leggi elettorali che hanno segnato la vita della seconda Repubblica nel tentativo di trasformare l’elezione del Parlamento, che è l’organo destinato a fare le leggi, nella designazione diretta del Governo, che è l’organo che deve metterle ad esecuzione, e così mettendo in crisi la separazione e l’equilibrio dei poteri disegnato dalla Costituzione, per la quale i governi nascono in Parlamento, com’è normale e giusto che accada in ogni repubblica parlamentare.
B) ANCHE IN ITALIA IL LIBERALISMO DEL XXI SECOLO
Il Liberalismo, oggi più che mai, si trova a dover affrontare molteplici sfide alle quali la sostanziale caduta dei modelli di pensiero formatisi nel XIX secolo non ha fornito alternative nuove e più evolute rispetto ai loro aspetti deteriori (preteso universalismo, competizione dogmatica tra modelli sociali, rigidità rispetto al cambiamento ed alla spinta tecnologica), e ha lasciato pericolosi vuoti critici nelle coscienze dei popoli che, negli ultimi 25 anni, sono sempre più attratti da modelli di azione improntati a semplicistiche, quanto populiste, ricette basate sulla paura dell’altro e sulla conservazione di uno “stato quo” utile solo a pochi oligarchi che manipolano ad arte la comunicazione globale per convincere il mondo che non c’è bisogno di più democrazia e di più libertà; anzi questi valori vengono sommessamente indicati come fonte di problemi e causa di insicurezze per le nostre comunità e per le future generazioni.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: partiti di plastica, leader da talk-show, personale politico improvvisato, crescente astensionismo, debolezza delle strutture intermedie, tutti fenomeni che si autoalimentano e finiscono per allontanare i cittadini dalla politica, ormai avvertita come attività “castale”, sempre più distaccata dalla società e incapace di gestirne le pulsioni e governarne i bisogni nell’interesse generale.
Assistiamo a un continuo e diffuso tentativo di delegittimare decenni di democrazia rappresentativa in favore di chiusure, soluzioni “governative” forti (vendute come “stabili”), muri e populismi di tremenda memoria.
In questo scenario sembra scontata la perniciosa assenza di una voce liberale, vera e unitaria, che viene ormai considerata come “inutile” in un epoca storica in cui il liberalismo avrebbe celebrato il suo trionfo, e che, unito alla “caduta delle ideologie”, essendo divenuto bagaglio culturale comune, porterebbe alla conseguenza dell’inutilità di organizzazioni politiche che lo richiamino esplicitamente nel loro progetto politico e nella relativa simbologia.
Alla base di questa erronea e superficiale convinzione si trova la confusione che normalmente si fa tra il liberismo, questo sì ormai generalizzato nell’era della globalizzazione, sino ad avere conquistato anche paesi a struttura politica fortemente autoritaria, e il liberalismo, che invece si trova quasi dovunque sulla difensiva, anche in una parte dell’Occidente da cui ha tratto le sue origini culturali e le sue strutture istituzionali.
L’unico risultato di questo “mantra” è che l’assenza, soprattutto in Italia, di un movimento liberale vero ed organizzato, seppur nella necessaria ed insostituibile pluralità di sentimenti ed orientamenti dei liberali, è la progressiva ed inesorabile distruzione proprio degli elementi liberali di base delle società che si spacciano per raggiunti ed invece sono quanto mai in estremo pericolo.
Le ricette liberali vengono invocate, per essere prontamente disapplicate, da molti millantatori che hanno gioco facile nel mettersi addosso un’etichetta che nessuno conosce fino in fondo, mentre i liberali del passato hanno portato il loro contributo a questa erronea credenza, preferendo collocarsi in contenitori che precariamente ne garantivano la sopravvivenza politica individuale, piuttosto che provare a stare tutti insieme per smascherare il balletto del “Vangelo Liberale Secondo Me” accusandosi a vicenda di non essere mai troppo liberali.
Noi crediamo invece che l’unità dei liberali, in una casa politica che sia orgogliosamente tale, sia la strada giusta per i pochi liberali di ieri e per i tanti che oggi lo sono spesso senza saperlo.
Non possiamo non vedere un’agenda, sia locale, che nazionale, che europea che ci veda impegnati nelle lotte ai problemi già sapientemente individuati ad Oxford nel 1997: la violazione dei diritti umani, la concentrazione eccessiva del potere e della ricchezza; il fondamentalismo, il totalitarismo, la xenofobia, il razzismo, la discriminazione tra i sessi, quella omosessuale, quella religiosa, quella generazionale e quella nei confronti dei disabili; la povertà e l’ignoranza, il divario sempre più ampio tra ricchi e poveri; il cattivo uso delle nuove tecnologie, l’indebolimento dei legami sociali, la competizione per risorse scarse, il degrado ambientale in un mondo sovraffollato, la criminalità organizzata e la corruzione politica.
Non possiamo pensare, dopo oltre vent’anni di fallimentari esperimenti, che il Liberalismo faccia quel che deve senza che ognuno di noi abbia fatto quel che può.
Riteniamo dunque necessario partire da un’appartenenza comune, che tutti sentiamo come tale al di là delle nostre singole esperienze, per avviare un progetto comune, per una grande casa “aperta” per tutti i Liberali italiani, dove “ognuno vale uno” sulla linea di partenza, ma tutti hanno il diritto di aggregarsi, discutere e creare azione politica nel rispetto delle regole condivise, per poi iniziare la gara della vita, anche di quella politica, i cui traguardi saranno inevitabilmente differenziati.
Senza una casa comune, quel poco di patrimonio che ancora resta del Liberalismo italiano finirà per perire nelle fauci dei sedicenti liberali di professione travestiti da affermatori virtuali di un liberalismo sempre proclamato e mai praticato…
E siamo sin d’ora ben consapevoli che coloro che ostacolano questo percorso, favorendo le derive oligarchiche dell’attuale fase politica o movimenti politici appartenenti ad altre famiglie europee, sia che ne siano sinceramente convinti, sia che risultino attratti da prospettive più percorribili e gratificanti, hanno smesso di essere liberali anche se continuano a non averne piena consapevolezza.
Il nostro obiettivo è ora quello di ripristinare in Italia un lessico politico che segni chiaramente la differenza tra le diverse idee di società sulla base delle culture politiche e dei principi ideali a cui ciascun partito si ispira, e, in particolare, per realizzare in Italia una vera DEMOCRAZIA LIBERALE, sulla base della nostra idea di Liberalismo, che consiste nel realizzare un equilibrato rapporto tra “il massimo possibile di libertà civili ed economiche, di opportunità personali, di promozione sociale e di contendibilità del potere, in termini che siano compatibili col minimo indispensabile di autorità statale e coi doveri inderogabili di solidarietà sociale”.
L’obiettivo è quindi quello di una società aperta, in costante evoluzione, basata sulla libera competizione e la meritocrazia, presidiata da salde regole che garantiscano a tutti pari opportunità attraverso l’ascensore sociale dell’istruzione garantita sino ai più alti livelli a tutti i capaci e meritevoli per rimediare alle ineguaglianze incolpevoli, accogliente e benevola per chi vuole integrarsi accettandone i valori, respingente e severa per chi rifiuta di farlo, con nessuno arcigna e cattiva.
La nostra constituency è, in primo luogo, quella delle piccole e medie imprese e delle professioni, che più di altre categorie hanno sofferto la crisi dell’ultimo decennio, aggravata dall’emergenza sanitaria, e che sono parte essenziale del ceto medio declinante, impoverito e tendenzialmente astensionista, che è anche quello più urbanizzato, più acculturato, più autonomo, più intraprendente, più aperto alle novità; in definitiva quello che sente di essere eguale a tutti gli altri cittadini europei, non già perché l’Italia fa parte dell’UE, ma perché ha identiche abitudini, convinzioni, aspirazioni.
Sono questi gli italiani che ritengono che il loro percorso di vita non appartenga allo Stato e alle sue occasionali elargizioni, alle corporazioni privilegiate, alle consorterie protettive; quelli che credono che la sfera pubblica sia fondamentale come garanzia e supporto all’ordinato competere e intrecciarsi delle singole sfere private; quelli che credono nella propria capacità di lavoro, nella possibilità di essere i principali artefici della propria fortuna e nelle responsabilità che assumono di fronte a sé stessi e alla comunità in cui operano; quelli che credono che lo spazio unitario europeo sia necessario per confrontarsi paritariamente col resto del mondo, ma avvertono la necessità di responsabilizzarne le istituzioni dinanzi ai cittadini europei, attraverso procedure elettorali transnazionali, che consentano ai cittadini europei di eleggere il loro Parlamento, cui tocca di designare il nuovo governo democratico dell’Europa.
C) LE COSE DA FARE SUBITO IN ITALIA
Nello specifico, riteniamo di aver individuato, nel quadro di una proposta politica liberale da sottoporre agli italiani, alcune specifiche sfide necessarie e non più rinviabili per una vera evoluzione in senso aperto del “Sistema Paese Italia”:
I. Una politica europeista e atlantista, senza se senza ma.
Nel momento in cui lo spettro di una guerra globale incombe sull’Europa e sul Mondo, per via dell’aggressione russa all’Ucraina e delle minacce della Cina imperiale contro la libera democrazia di Taiwan, il primo dovere dei liberali italiani –quale che sia la loro collocazione partitica dovuta a un sistema elettorale maggioritario che nel tempo ci ha costretti a ingoiare tutti i suoi frutti avvelenati – è quello di riaffermare solennemente la loro solidale appartenenza al novero delle libere democrazie europee e atlantiche contro i rischi crescenti provenienti dalle autocrazie illiberali dell’Europa orientale e della Cina.
L’Italia è rinata dalle ceneri della seconda guerra mondiale solo quando è riuscita, pur in una situazione geopolitica difficilissima e rischiosa, a tenere la barra dritta, presidiando la trincea orientale della civiltà occidentale.
Dopo la breve illusione che aveva fatto sperare cha anche la Russia desovietizzata potesse riunirsi alle democrazie liberali del centro e dell’ovest europeo, la Storia ci ha riproposto tragicamente i dilemmi del passato, e ha messo gli italiani di fronte a una nuova scelta esistenziale che non può che essere quella di ieri, e cioè la totale solidarietà coi popoli che difendono le loro libertà.
In questo quadro, la vicinanza all’eroico popolo ucraino non può essere messa in discussione dai tanti che pensano soltanto al loro egoistico orticello, quando invece è in gioco, nell’est europeo, come nel mar cinese meridionale, la sopravvivenza di società libere minacciate da vicini che vogliono affermare la loro visione egemonica della loro sfera d’influenza.
II. Una legge elettorale democratica.
La prima cosa da fare, e da fare subito, è quella di approvare una nuova legge elettorale che ripristini il potere dei cittadini di eleggere i loro rappresentanti, così restituendo la quota di sovranità nazionale che le ultime tre leggi elettorali hanno loro sottratto inseguendo il mito della governabilità a tutti i costi e affidando a pochi oligarchi, autonominatisi tali, il diritto di nominare direttamente tutti i parlamentari, sulla base di liste preordinate che non consentono alcuna reale scelta se non quella di rifugiarsi nell’astensione o nella protesta.
La bussola da seguire non è solo quella delle recenti sentenze della Corte Costituzionale, che hanno tracciato i paletti insuperabili della legislazione elettorale, e tuttavia risentono delle oggettive limitazioni dei giudizi incidentali di costituzionalità.
Si tratta invece di dare a tutti la reale sensazione che l’epoca infausta della nomina dei parlamentari è affidata ai cattivi ricordi della seconda Repubblica, e quindi occorre ripristinare nella pienezza del loro significato le prerogative costituzionali dei cittadini, favorendo in ogni modo il loro diritto di associarsi in partiti per concorrere a determinare la politica nazionale, in modo che tutti possano accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, senza privilegi nella presentazione delle liste e senza sbarramenti artificiali nell’accesso al Parlamento, che sono gli strumenti surrettiziamente introdotti allo scopo di scoraggiare la partecipazione e predeterminare la composizione del Parlamento e l’indirizzo politico del Paese.
Purtroppo, non hanno avuto sin qui successo le iniziative giudiziarie che alcuni giuristi liberali siciliani hanno promosso dinanzi ai giudici di Messina, in sintonia con quanto altri hanno fatto in tutta Italia, nel tentativo di portare all’attenzione della Corte Costituzionale i numerosi dubbi di costituzionalità che gravano sull’attuale legge elettorale, si sono infranti contro lo scoglio dell’indifferenza di chi avrebbe dovuto decidere tempestivamente su una questione di basilare importanza per la nostra Democrazia, costringendo ancora una volta gli italiani a votare su liste bloccate, con un inammissibile voto congiunto tra candidati uninominali e candidature plurinominali, senza quindi potere scegliere liberamente i propri rappresentanti.
Un’occasione sprecata dalla Magistratura cui speriamo il prossimo Parlamento vorrà rimediare con una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini ciò che è stato loro tolto.
III. Un Governo stabile e una legislazione rapida e trasparente.
Le elezioni sono destinate a rappresentare il Paese, in tutto il suo pluralismo, allo scopo di confezionare leggi che rispondano al comune sentire, ma ciò non vuol dire che i governi non possano avere il diritto costituzionale di realizzare il loro programma, né che debbano essere lasciati in balia dei mutevoli indirizzi di singoli gruppi di parlamentari, né che il presidente del Consiglio non possa decidere di fare a meno di un componente del suo governo del quale ritiene di doversi privare con motivazioni di cui il premier deve essere l’unico responsabile.
Ne consegue che un governo, una volta nominato dal Presidente della Repubblica e ottenuta la fiducia del Parlamento, deve potere governare il Paese sino a che un nuovo governo non sia eventualmente pronto a sostituirlo, avendo previamente e pubblicamente registrato il necessario consenso parlamentare.
Nel corso della sua attività, poi, ogni governo deve essere l’esclusivo responsabile delle scelte di bilancio, che non possono essere lasciate al mercato parlamentare a cui continuiamo ad assistere da decenni, e che vede ogni parte politica impegnate a piantare la propria bandierina su qualche misura corporativa nella speranza di trarne qualche piccola e immediata utilità, a cui il governo del momento cerca di ovviare imponendo votazioni di fiducia su maxiemendamenti che, nella loro complessità, finiscono per risultare incomprensibili alla pubblica opinione.
A tal fine, occorre abbandonare la strada infausta delle riforme generalizzate, che si sono dimostrate impercorribili, oltre che di dubbia legittimità costituzionale, non senza avvertire che anche le riforme puntuali possono essere pericolose, come dimostra l’infausta riduzione del numero dei parlamentari, il cui referendum, opportunamente promosso dalla Fondazione Einaudi, ha visto il sostegno di quasi tutti i liberali, convinti che quella demagogica misura non avrebbe risolto alcun problema e ne avrebbe creati molti altri in tema di rappresentanza popolare e di funzionalità della prossima Legislatura.
Occorre invece introdurre alcune mirate revisioni costituzionali di assoluto buon senso, e in particolare la fiducia del Parlamento concessa al solo Presidente del Consiglio, che potrà a sua volta proporre al Presidente della Repubblica non solo la nomina, ma anche la revoca dei ministri; l’inemendabilità delle leggi di bilancio, se non col consenso del governo; l’introduzione della sfiducia costruttiva nei confronti del premier, al cui esito consegua la contestuale nomina di un nuovo premier a opera del Presidente della Repubblica e la successiva nomina dei ministri senza alcun nuovo voto di fiducia.
Al contempo, per accelerare la produzione legislativa e quindi migliorare l’efficienza dei lavori parlamentari, occorre generalizzare la sede redigente per tutti disegni di legge, che devono avere oggetto specifico e non eterogeneo, riservando alle Assemblee parlamentari solo il voto finale complessivo, in modo che i cittadini possano agevolmente acquisire piena consapevolezza circa la posizione di ciascuna componente parlamentare e circa le motivazioni che hanno spinto ad approvare o contestare la normativa all’esame, assumendosene la responsabilità di fronte all’opinione pubblica.
IV. Una giustizia finalmente “giusta”.
Nessuna società moderna può prescindere da un sistema giudiziario rapido e giusto, che, mentre sfrutta al massimo le nuove tecnologie, sappia immutare i meccanismi sclerotizzati del processo, introducendo profonde riforme di sistema, dall’ambito civile a quello penale, da quello amministrativo a quello contabile.
a) Il processo civile deve essere essenzialmente basato sull’oralità del rito e sulla disponibilità privata delle prove, valorizzando il sistema dell’affidavit senza inutili barriere dirigistiche; in particolare:
- i) il processo di primo grado dovrebbe essere pressoché esclusivamente orale, salvo l’atto introduttivo (la citazione) e l’atto finale (la sentenza); la citazione andrebbe accompagnata da una scheda riassuntiva che consenta di individuare immediatamente l’oggetto della contesa, le norme di cui si chiede l’applicazione, e le conseguenti conclusioni; la sentenza dovrebbe essere stesa secondo il metodo francese (“entendue que…..”), con motivazione succinta; le parti dovrebbero essere abilitate ad acquisire direttamente e in contraddittorio tra di loro le rispettive prove testimoniali e a produrre le relazioni tecniche giurate ritenute utili, mentre andrebbe generalizzato il metodo dell’affidavit senza intermediazione del giudice, che potrà poi verificare con eventuali confronti la credibilità dei testi e l’attendibilità delle perizie attraverso una consulenza d’ufficio acquisita senza necessità di contraddittorio processuale;
- ii) il processo di appello dovrebbe essere esclusivamente scritto, con impugnazione stesa in forma succinta accompagnata da una scheda riassuntiva come in primo grado, con divieto di nuove prove costituende ma con facoltà di produrre nuove prove costituite; andrebbero eliminate le udienze, salvi casi eccezionali; la sentenza andrebbe stesa secondo il citato metodo francese, con motivazione succinta;
- iii) il giudizio di Cassazione dovrebbe essere consentito solo per questioni di giurisdizione e di competenza, per violazione di legge e per nullità della sentenza e del procedimento, dovrebbe essere esclusivamente scritto, andrebbe eliminata l’udienza di discussione e la sentenza adottata in camera di consiglio, con relazione del PG inviata alle parti con facoltà di contestarla con apposita memoria.
b) Il processo tributario dovrebbe essere gestito da giudici professionali autonomi e indipendenti, specializzati attraverso appositi corsi di preparazione nella materia con esame finale abilitante, adeguatamente retribuiti e incompatibili con qualsiasi altra professione.
c) il processo penale: non potrà mai esserci un processo penale rapido e giusto senza una poderosa opera di depenalizzazione di molti reati ormai percepiti come privi di forte disvalore sociale, convertendoli in illeciti amministrativi.
In quest’ottica va sperimentata la scelta antiproibizionista rispetto al consumo di droghe leggere, e va legalizzato l’esercizio della prostituzione in locali attrezzati, mentre vanno inasprite le pene per lo sfruttamento, la riduzione in schiavitù e l’esercizio del meretricio sulla pubblica via.
La nostra convinzione è che tutto ciò può rendere complessivamente più libera la società, consentendo allo Stato di concentrarsi sui fatti-reato che suscitano reale allarme sociale.
d) L’ordinamento giudiziario deve prevedere un accesso separato per i ruoli giudicanti e inquirenti, che devono restare separati anche nel corso delle carriere. La separazione tra carriere dei magistrati è un principio liberale per troppo tempo disatteso, che avrebbe trovato soluzione con l’approvazione del disegno di legge d’iniziativa popolare da tempo predisposto dall’Unione delle Camere Penali, il cui esito infruttuoso induce ora i liberali a sostenere senza riserve i sei referendum abrogativi su aspetti fondamentali della Giustizia (decreto Severino, abusi della custodia cautelare, separazione delle carriere di Giudici e PM, valutazione professionale e responsabilità civile dei magistrati, riforma del CSM), provando così ad ottenere per via popolare quelle fondamentali riforme che il Parlamento non sembra in grado di realizzare.
e) L’equilibrio tra i poteri dello Stato: Non si tratta soltanto di intervenire sul c. d. “pianeta Giustizia”, per cercare di migliorarne la terzietà e l’efficienza, ma il tentativo in corso, che i liberali condividono, è quello di provare a riequilibrare il rapporto tra i poteri dello Stato, oggi assolutamente squilibrato a tutto vantaggio dell’ordine giudiziario, che ormai praticamente dispone delle stesse sorti della politica attraverso l’implicito condizionamento preventivo esercitato sui comportamenti dei parlamentari e, in definitiva, sullo stesso Parlamento.
Si tratta di un esito che gli imprevidenti legislatori del 1993 hanno inconsapevolmente propiziato allorché hanno approvato l’infausta modifica costituzionale dell’art. 68, che, nell’ultima fase della c. d. prima Repubblica, aveva certo favorito molti censurabili comportamenti di singoli parlamentari, ma che ha finito per pregiudicare lo stesso equilibrio tra i poteri dello Stato che i Costituenti avevano sapientemente costruito .
In ogni caso, a prescindere dal responso referendario, una grande e vigorosa battaglia politica deve comunque essere intrapresa per migliorare i meccanismi della giustizia anche per via legislativa.
f) la custodia cautelare: occorre mettere fine all’abnorme fenomeno della custodia cautelare in carcere, la cui incidenza sul totale delle carcerazioni ha ormai raggiunto livelli irragionevoli, che penalizzano ulteriormente chi la subisce rendendo intollerabile la condizione carceraria e vanificando il sacrosanto principio costituzionale di incolpevolezza sino alla condanna definitiva.
La carcerazione preventiva, inflitta appena all’inizio del percorso inquisitorio, non può essere trasformata in una pena anticipata surrettizia di quella definitiva che si teme di non potere mai irrogare, e va attivata soltanto in casi di conclamata pericolosità sociale, mentre il pericolo di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato può essere agevolmente superato generalizzando l’applicazione della custodia domiciliare.
Siamo consapevoli che è principio liberale quello di garantire l’equilibrio tra liberta degli individui e sicurezza sociale, e ciò può avvenire solo con la certezza dell’applicazione della pena, una volta che sia definitiva, mentre va sfoltita la giungla delle agevolazioni premiali che ormai la riducono in termini talvolta risibili.
g) L’azione penale, la cui teorica obbligatorietà costituzionale resta affidato all’’assoluta discrezionalità dei magistrati, ingolfa gli uffici giudiziari di tante questioni che non meritano di entrare nelle aule di giustizia per finire poi, quasi sempre, nel dimenticatoio delle prescrizioni.
Non è possibile che tantissimi processi, coi relativi costi, economici e sociali, finiscano nel nulla, così negando giustizia alle parti lese ed alla società nel suo complesso; occorre quindi fissare regole processuali che consentano di assicurare la rapidità della risposta di giustizia, dei cui ritardi, come anche delle sue colpevoli negligenze, deve rispondere direttamente lo Stato, salvo rivalsa verso i magistrati che li abbiano originati coi loro indebiti comportamenti, che non possono essere garantiti dal sistema assicurativo.
In proposito, ci ha lasciati fortemente insoddisfatti il compromesso che ha portato all’inedito meccanismo dell’improcedibilità processuale, nell’occasione inventata per aggirare gli ostacoli politici frapposti dalla parte meno garantista dell’attuale Parlamento, mentre sarebbe bastato recepire la proposta della Commissione Lattanzi; in ogni caso, riteniamo che le sentenze di assoluzione con formula piena in primo grado dovrebbero essere inappellabili e, eventualmente, solo ricorribili in Cassazione per vizi di legittimità.
V. La Scuola, ascensore sociale e staffetta generazionale
«La nostra Costituzione, nell’art. 33, dice solennemente: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Per restituire la Scuola a sé stessa dobbiamo, per l’appunto, farne la sede del Magistero dell’arte e della scienza, indispensabili per la formazione dei giovani a uomini veramente liberi, cioè capaci di vivere e di operare nel mondo della libertà, che è il mondo dello Spirito creatore».
È questo un pensiero di Salvatore Valitutti, che Democrazia Liberale fa proprio come premessa alle cose da fare per la Scuola italiana.
Nella società conoscitiva, caratterizzata da modificazioni profonde, da continue innovazioni tecnologiche e persino da cambiamenti nei saperi, l’obiettivo primario del Paese affinché la Scuola torni a essere ascensore sociale e staffetta generazionale non può che essere l’investimento nell’istruzione che parta dalla conoscenza per arrivare a promuovere lo spirito critico che poi accompagnerà i nuovi cittadini per tutto il corso della loro vita.
I vari Report sullo stato della Scuola italiana evidenziano un quadro preoccupante sia per i ridotti investimenti, a fronte di quelli europei, sia per il conseguente divario nel numero di diplomati e laureati.
Un nuovo sistema educativo nazionale costituisce oggi la sfida da affrontare e vincere sulla base di due premesse:
– abolizione del valore legale dei titoli di studio per rianimare tutto il sistema scolastico, mettendo fine all’annoso contrasto fra scuola statale e non statale e alle illusorie aspettative di chi ha conseguito un titolo e ritiene che esso, di per sé, costituisca il viatico per chi sa cosa per poi dovere constatare che i titoli di studio sono largamente svalutati e che i processi di selezione nella vita produttiva avvengono ormai, piuttosto che sui titoli, sulla base delle scuole e degli insegnanti di provenienza, delle materie studiate, delle conoscenze acquisite e dello spirito critico maturato e quindi della capacità di scegliere la soluzione di volta in volta ottimale;
– diritto generalizzato allo studio: in una Scuola ormai aperta alla partecipazione generalizzata bisogna implementare fortemente le risorse destinate a garantire l’effettiva di uguaglianza nei punti di partenza per consentire il superamento delle diseguaglianze immeritate attraverso i voucher offerti alle famiglie per indirizzare i figli verso l’istruzione di eccellenza.
Sulla base di tali premesse, occorre superare gli attuali obiettivi egualitari, che devono restare limitati alla scuola dell’obbligo, e affrontare il problema dell’accesso ai gradi ulteriori dell’istruzione, perché l’unica uguaglianza realmente possibile è quella di offrire uguali chances a tutti e per tutto, affinché possano coltivare le proprie capacità che poi li porteranno a differenziarsi nel loro percorso della vita.
La Scuola è l’istituzione fondamentale per mettere tutti i giovani nelle medesime condizioni di partenza e va quindi vista come potenziale ascensore sociale per accedere ai più alti livelli d’istruzione e alle maggiori responsabilità sociali, ma ciò non vuol dire che essa debba rinunziare a selezionare le persone più dotate, che costituiranno in tessuto culturale e organizzativo apicale della società di domani.
Selezionare i giovani non significa espellere dal sistema scolastico quelli meno dotati e meno meritevoli, ma distribuirli secondo merito e capacità nei vari percorsi scolastici; al contempo, non si può rinunziare a privilegiare, man mano che si manifesta, il merito di ciascuno proprio per evitare che l’appiattimento avvenga al livello più basso, finendo per impoverire l’intero tessuto sociale.
Per raggiungere questi obiettivi, occorre a parere dei liberali:
- riordinare i cicli scolastici e innovare il sistema di formazione e reclutamento degli insegnanti che dovranno occuparsi della globalità dei problemi giovanili, oltre che dei processi didattici fondati su nuove tecniche metodologiche;
- reinserire lo studio del latino nella scuola secondaria di primo grado;
- implementare il numero di docenti di sostegno per studenti con bisogni educativi speciali (BES);
- introdurre in tutti gli ordini di scuole attività finalizzate alle Soft Skills
- prevedere norme che facilitino l’anno sabbatico e una retribuzione che sia uguale a quella degli insegnanti europei;
- definire i rapporti tra formazione professionale e mondo del lavoro;
- incentivare l’educazione degli adulti lavoratori o disoccupati per raccogliere le sfide della innovazione tecnologica.
VI. Impresa e lavoro: competizione nel merito, uguali alla partenza, diseguali all’arrivo.
Il mondo dell’economia e del lavoro deve uscire anch’esso dalla logica antiquata e perversa dello scontro tra imprenditori e lavoratori: la globalizzazione ha innovato profondamente i rapporti produttivi, i cui fattori sono andati via via localizzandosi globalmente secondo convenienza competitiva, mentre le resistenze di singoli settori ormai divenuti improduttivi sclerotizzano il sistema e ostacolano gli investimenti nell’innovazione, riducendo la competitività complessiva del sistema e bloccando la crescita del Paese.
La disoccupazione giovanile e femminile che ha ormai raggiunto livelli da tragedia civile, ne è una dolorosa conseguenze che poteva essere evitata se il sistema si fosse tempestivamente modernizzato, convertendosi da lavorazioni di basso livello manifatturiero in produzioni con alti livelli di creazione intellettuale e di innovazione tecnologica.
Il danno è ormai fatto, e sarà difficile recuperare il divario con le economie mondiali più avanzate, che sono riuscite a riconvertirsi per tempo; c’è tuttavia un’opportunità che sta per presentarsi e che va tempestivamente colta, nella misura in cui, con la crescita impetuosa dei paesi destinatari delle localizzazioni, molte produzioni potrebbero invertire la rotta verso i paesi che sono riusciti a dotarsi di strutture capaci di innovare i meccanismi della produzione sfruttando le grandi opportunità offerte dall’innovazione tecnologica per realizzare beni e servizi di altissimo livello creativo.
I liberali sono poi convinti sostenitori della necessità di equiparare al massimo del possibile tutti i lavoratori attuali e potenziali, nella consapevolezza che il lavoro degli “insider”, quando eccessivamente protetto, aumenta la precarietà di chi ne è escluso e finisce per scoraggiare gli investimenti impedendo la crescita dell’economia.
Quello delle pari opportunità è un principio fondamentale per i liberali: tutti i cittadini devono potere accedere al lavoro secondo le loro effettive capacità e non in ragione delle protezioni propiziate da caste, categorie, sindacati, ordini professionali, clientele politiche o anche solo da rapporti amicali.
I liberali si fanno quindi promotori di un’alleanza tra i produttori e tra le generazioni: va rinsaldato il rapporto virtuoso d’interdipendenza tra chi organizza la produzione e chi presta il lavoro necessario, e ritengono che le relazioni sindacali debbano orientarsi verso l’introduzione di un contratto nazionale minimo di lavoro, essenzialmente finalizzato alla parte normativa e al minimo vitale, lasciando il resto alla contrattazione territoriale ed aziendale; solo in tal modo sarà possibile rinnovare profondamente i sistemi produttivi, tarandoli sulle esigenze delle singole imprese piuttosto che sulle demagogiche parole d’ordine di talune organizzazioni sindacali, il cui unico scopo sembra ormai quello di provare a dimostrare di esistere.
Va poi garantita ai più deboli e ai giovani l’eguaglianza nei punti di partenza, e ai migliori la possibilità di emergere liberamente diseguali, in ragione delle loro capacità propiziate da una scuola di eccellenza, che è il fondamentale ascensore sociale di una società libera e giusta.
Anche per questo occorre procedere, sia pure per gradi, verso l’abolizione del valore legale dei titoli di studio, a partire dall’eliminazione dell’incidenza del voto di laurea, che, in presenza di un’offerta didattica così disomogenea, non è significativo del livello di eccellenza di un titolo di studio; e quanto ai disabili, specie giovani, è proprio nel percorso scolastico che essi hanno necessità di essere maggiormente garantiti, perché tocca alla scuola il compito di metterli in grado di competere al meglio possibile coi loro coetanei meno sfortunati.
In tale contesto, appare necessaria una rivisitazione della disciplina ordinistica delle professioni che, senza indulgere ad un’inammissibile concezione mercantilistica, che non appartiene alla struttura e alla pratica dell’attività professionale, possa facilitare ai giovani più dotati l’accesso iniziale, lasciando alle loro capacità la possibilità di coltivarle con profitto, e garantendo al contempo il continuo ed effettivo aggiornamento professionale di tutti gli addetti, anche per evitare che le professioni diventino mere aree di parcheggio per disoccupati cronici.
Al contempo, anche il rapporto di pubblico impiego va profondamente rivisitato, equiparandolo normativamente a quello dei lavoratori del comparto privato: è inconcepibile che, a fronte di lavoratori privati esposti al rischio d’impresa, vi siano pubblici dipendenti illimitatamente garantiti, in termini che finiscono per gravare sulla fiscalità generale, come è inammissibile che le garanzie del pubblico dipendente siano fonte di clientele e di consenso elettorale, quando non di rapporti criminali.
VII. Il debito pubblico
Il primo dovere di una classe politica è quello di dire la verità al Paese che vuole rappresentare e governare, senza indulgere a promesse mirabolanti che si sa di non potere realizzare.
La giostra delle promesse a cui il Paese sta assistendo, come indiretta conseguenza dei sistemi maggioritari della seconda Repubblica, non riesce più a illudere e quindi a conquistare voti, ma riesce benissimo a fare perdere alla politica quel po’ di credibilità che ancora rimane dopo quasi trenta anni di delusioni.
E quindi la prima cosa da fare è quella di dire che il Paese è oberato da un debito pubblico che ogni anno costa circa 70 miliardi e che costerà molto di più nel momento in cui la BCE cesserà di assorbirlo come ha fatto negli ultimi anni, e quando si tratterà di rimborsare i finanziamenti provenienti dal piano di New Generation UE, solo una parte dei quali è a fondo perduto.
L’abbattimento del debito pubblico passa attraverso due strade da percorrere contemporaneamente.
Occorre in primo luogo intraprendere un programma di reale alienazione delle partecipazioni societarie dello Stato e degli enti locali, non solo apparente, com’è quello di trasferirle surrettiziamente alla Cassa Depositi e Prestiti, nella vana speranza di potere così ingannare gli investitori internazionali e le agenzie di rating, e mettendo oltre tutto a rischio il risparmio postale degli italiani.
Al contempo, va attuata una profonda sburocratizzazione del Paese e una lotta senza quartiere agli sprechi nella pubblica amministrazione, con una profonda rivisitazione dei flussi di spesa: gran parte della spesa pubblica è mera spesa corrente improduttiva, quando non clientelare, e finisce per drenare risorse, già scarse, e generare sprechi; in particolare, il sistema delle consulenze esterne nelle pubbliche amministrazioni e negli enti statali va profondamente rivisto, dovendosi invece trovare nelle professionalità interne la risposta a eventuali esigenze, mentre, in casi limite, ci si potrà rivolgere alle Università pubbliche, con un tariffario vincolato.
Nell’immediato, basterebbe mettere in esecuzione il piano elaborato dal prof. Cottarelli, che ha individuato larghe fasce di spesa pubblica improduttiva che potrebbe essere agevolmente ridimensionata senza che abbia a soffrirne il sistema del welfare nazionale, e così liberando risorse da utilizzare per rivitalizzare la spesa d’investimento, produttiva di redditi reali e di crescita sociale.
VIII. La pressione fiscale.
Non è invece pensabile che il compito di abbattere il debito pubblico possa essere affidato alla fiscalità ordinaria, ormai giunta a livelli da espropriazione; mentre si procede alla razionalizzazione e riduzione della spesa statale, occorre quindi rimodulare il carico fiscale, spostandolo sui percettori di rendite e invece liberando risorse a favore dei produttori di reddito, una categoria che accomuna imprese, lavoratori e professionisti; l’evasione e l’elusione fiscale, che alterano la libera concorrenza e mortificano i cittadini onesti, vanno combattute non solo con un’efficace azione di controllo, ma soprattutto in prevenzione, introducendo la pratica del conflitto virtuoso tra venditori di beni e servizi e i rispettivi consumatori, ai quali va consentita una significativa detrazione del relativo costo, che è poi l’unico sistema in grado di favorire l’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali (tax compliance).
Al contempo, vanno significativamente abbassate le attuali aliquote fiscali, che attualmente penalizzano soprattutto la fascia centrale dei redditi, riducendole a non più di tre, ma al contempo introducendo la c. “imposta negativa” per i redditi più bassi, che dovranno essere fiscalmente indennizzati sino a che perduri la loro disagevole condizione, senza che tuttavia ciò possa costituire incentivo ad affidarsi alla mano pubblica nel loro percorso di vita, e anzi inducendoli a uscire al più presto possibile dalla momentanea condizione assistenziale, favorita dall’illusorio rimedio del c. d. reddito di cittadinanza (che tale neppure è).
IX. I costi della politica.
Le pubbliche sovvenzioni agli organi di stampa vanno ripensate, nella consapevolezza che i media svolgono anche una funzione pubblica, e tuttavia facendole elargire da un organismo terzo, nominato dal Presidente della repubblica, a garanzia dell’indipendenza politica di chi le riceve; va completato il sistema di finanziamento dei partiti, agevolando fiscalmente il fund-raising e i contributi privati, senza le iugulatorie limitazioni da ultimo introdotte, e invece aumentando il contributo volontario dal due al cinque per mille dell’imposta sul reddito (come per le organizzazioni religiose), in modo da consentire ai cittadini di finanziare compiutamente il partito di riferimento.
È poi necessario rendere effettiva, e non solo nominale, la certificazione dei bilanci dei partiti ad opera di un organismo neutrale che, senza possibilità di sindacare le scelte politiche, possa tuttavia controllare l’inerenza delle spese rispetto all’attività politica dichiarata.
Anche sul sistema delle indennità parlamentari andrà fatta una riflessione: i liberali sono consapevoli che si tratta di uno strumento di civiltà, che origina dalla democratica necessità di consentire a tutti i cittadini la possibilità di accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, e di poterle poi esercitare e in assoluta libertà, ancor più oggi quando imperversa la deriva plutocratica e aristocratica della politica leaderistica.
Occorre quindi far comprendere ai cittadini che non si tratta di un privilegio castale, su cui sono state costruite occasionali fortune elettorali, ma di un’assoluta necessità per la vita pubblica.
Per evitare che i costi della politica vengano avvertiti come privilegi auto attribuiti, la strada maestra è quella di parametrare le indennità parlamentari italiane a quelle vigenti negli altri più grandi paesi europei, rendendole conformi alla media dei rispettivi trattamenti, mentre va riconosciuta la necessità di congrui trattamenti previdenziali post-mandato per consentire a tutti coloro che decidono di dedicare tempo e capacità al pubblico interesse di potere guardare al loro futuro senza il timore di finire in difficoltà nel periodo meno produttivo del loro percorso di vita.
Vanno invece aboliti tutti i rimborsi forfettari, tradottisi spesso in ulteriori opachi benefici, e quindi i parlamentari potranno ricevere solo rimborsi a piè di lista per le spese effettivamente sostenute durante le sessioni parlamentari e per la loro attività politica di territorio, entro massimali prestabiliti all’inizio di ciascuna legislatura da parte degli Uffici di Presidenza..
Lo scandalo di assistenti parlamentari fasulli o sottopagati, spesso clientelari e talvolta addirittura familiari, va fatto cessare, facendoli direttamente e congruamente retribuire dalla Camera di appartenenza su indicazione del parlamentare, con contratti di durata non superiore a quella della legislatura in corso e con divieto di altri incarichi in costanza di rapporto.
Non condividiamo infine il tentativo in corso di condizionare la libertà del mandato parlamentare, che è principio irrinunciabile di ogni democrazia liberale, provando a penalizzare chi, in corso di legislatura, per ragioni che non è lecito sindacare o punire, non si riconosca più nel partito in cui è stato eletto (o meglio, in atto, nominato).
Il trasformismo parlamentare degli ultimi 25 anni, che era fenomeno sconosciuto ai parlamenti della c. d. prima Repubblica, non è la causa della crisi della politica, ne è soltanto la più appariscente conseguenza, ed è essenzialmente dovuta al declino, e in qualche caso alla sparizione, delle grandi opzioni ideali su cui ogni paese democratico d’Europa ancora oggi politicamente si divide e confronta.
La degenerazione trasformistica del sistema politico nasce dall’invenzione tutta italiana dei grandi contenitori elettorali creati al solo scopo di provare a vincere le elezioni utilizzando uno dei tanti sistemi maggioritari sin qui sperimentati, e finirà soltanto quando saremo tornati a un sano sistema proporzionale in cui i cittadini e i parlamentari possano riconoscersi e aggregarsi per le loro convinzioni, che sono per lo più virtuose e durature, piuttosto che per perseguire le loro convenienze, che sono invece per lo più interessate e occasionali.
X. Uno Stato laico.
Il laicismo, tema fondamentale per i liberali, va inteso nel senso corretto di terzietà e neutralità delle istituzioni rispetto alla sfera intima delle convinzioni religiose dell’individuo: per i Liberali, lo Stato non può in nessun caso influenzare con la legge la libertà delle scelte personali, specie sui temi eticamente sensibili, così come non può mettere vincoli alla ricerca scientifica, senza la quale l’Italia è destinata a restare ultima tra le società evolute.
I liberali sostengono il principio costituzionale che vuole la famiglia come nucleo fondamentale della società, fondata sul matrimonio civile o con effetti civili, e non credono che l’invenzione legislativa di un “tertium genus ad libitum” – auto attribuito, sulla base di scelte individuali che vanno comunque socialmente rispettate e penalmente tutelate – sia la soluzione corretta per affrontare il problema di garantire a ciascuno la libertà di praticare individuali comportamenti che non incidano sulle altrui libertà.
Ma sono del pari consapevoli che è una grave e ingiustificata discriminazione quella di rifiutare, in ragione del sesso, quale che sia, l’accesso a una stabile e legalmente riconosciuta convivenza more uxorio; una comunità familiare si caratterizza prima di tutto in ragione dei legami affettivi, di solidarietà e di mutuo sostegno che si vengono a creare fra chi ne è parte, e non sembra essenziale, ai fini della civile declinazione di queste caratteristiche, soffermarsi sul sesso, più o meno tradizionalmente acquisito e riconosciuto, dei suoi protagonisti.
Al contempo, è insopprimibile la libertà di scelta della donna sulla prevenzione e sull’interruzione di gravidanza, e l’eventuale obiezione di coscienza dei medici, pure ammissibile in via di principio, non potrà debordare sino alla negazione di quel diritto, mentre va trovato adeguato spazio per affermare il concorrente diritto alla paternità, senza tuttavia vanificare la scelta finale della donna.
XI. Il Mediterraneo e le migrazioni
Ferma restando l’incrollabile fiducia nei valori delle democrazie occidentali e nella solidarietà transatlantica con le grandi democrazie americane, i liberali sono convinti della necessità di intensificare la collaborazione con i paesi del Mediterraneo, finalizzata in primo luogo alla promozione dello sviluppo delle economie locali, come chiave di volta per stabilizzare le nascenti democrazie e per favorire un graduale processo di laicizzazione delle loro istituzioni.
Nella consapevolezza, poi, che le migrazioni dei giorni nostri rappresentano un fenomeno epocale con cui bisognerà fare continuamente i conti nei prossimi decenni, occorre tuttavia confermare il principio che nell’Unione Europea non ci sono confini nazionali ma europei, e anche acquisire la consapevolezza che il nostro territorio ha limitate capacità recettive, prevedendo la fissazione di mirati flussi migratori legali regolamentati per legge, e fermo sempre restando il dovere costituzionale di accoglienza per i richiedenti asilo.
Compito della politica è quello di rendere le nuove presenze compatibili con la società in cui vanno a inserirsi, attraverso un percorso scolastico al cui termine deve sempre esserci il giuramento solenne e credibile di prestare osservanza alla Costituzione e alle leggi dello Stato, come già dispone la legge in vigore, che può essere migliorata ma non stravolta.
Ciò che appare invece intollerabile è che possano circolare indisturbati nel Paese centinaia di migliaia di clandestini, cui è stato consegnato un ordine di espulsione nominale che lo Stato non prova nemmeno a fare eseguire, lasciandoli in una situazione di assoluta precarietà, che li rende manovalanza disponibile per una delle tante mafie e organizzazioni malavitose che pullulano nel Paese, e che devono essere combattute dagli organi di polizia, non dai magistrati, cui tocca invece di giudicare solo eventuali reati.
XII. Il declino dell’Italia e l’occasione dell’Europa: la prospettiva di un nuovo Meridionalismo.
In via generale, i liberali, che sono europeisti per antica convinzione, da sempre sostengono la necessità dell’Europa politica, senza la quale non potrà reggere a lungo nessuna comunità economica, e quindi la necessità di passare dall’Europa intergovernativa di oggi all’Europa federale di domani, cui affidare, assieme alla moneta unica e alla tutela del mercato comune, i compiti essenziali della politica estera e della difesa, predisponendo e finanziando adeguatamente un forza europea di pronto intervento che possa agire prontamente negli scenari di crisi, in stretta collaborazione con la NATO, e in tal senso proseguendo il percorso intrapreso verso il raggiungimento del traguardo del 2% del PIL destinato al settore.
In tale prospettiva vanno confermati tutti gli strumenti giuridici ed economici già in vigore nell’UE, e vanno create integrazioni rafforzate tra tutti i paesi disponibili a rinunziare a quote crescenti di sovranità, sulla base del principio di sussidiarietà, in termini che non compromettano il sentimento d’’identità nazionale dei singoli popoli, le cui caratteristiche culturali vanno comunque preservate, e quindi evitando il ripetersi di estemporanei tentativi di modificare anche il tradizionale lessico sociale.
C’è poi la specifica circostanza che schiude all’Italia inedite opportunità per mettersi alla pari cogli altri paesi europei, uscendo dal lento declino economico dell’ultimo decennio, che l’hanno vista crescere assai meno degli altri partner.
Povero di materie prime e di grandi industrie, con un livello d’istruzione e un PIL pro capite inferiori alla media europea, un agroalimentare raramente in attivo, anche perché frenato da norme comunitarie penalizzanti, il settore Ricerca & Sviluppo privo di grandi risorse, una tassazione non competitiva e, infine, un debito pubblico mostruoso, L’Italia, per non affondare, sembra essere oggi aggrappata al turismo e alle esportazioni del comparto manifatturiero.
Pur partecipando ai G8, l’Italia si colloca oggi all’11° posto tra i Paesi ricchi nella classifica per PIL a parità di potere d’acquisto (PPA), e le previsioni al 2050 la vedono ancora più giù, al 21° posto; diviene quindi inevitabile chiedersi come invertire questa tendenza.
Una prima importante risposta l’ha data la stessa Commissione UE quando ha attribuito al nostro Paese la quota maggiore del Recovery Fund, indicando esplicitamente lo sviluppo delle regioni meridionali tra le Linee Guida per la redazione del PNRR, non solo allo scopo di ridurre le imponenti diseguaglianze interne, ma anche per contrastare la crescente presenza di alcuni paesi extra UE (Turchia, Cina e Russia) che provano ad assumere un ruolo egemone nel Mediterraneo.
Nei criteri ispiratori del Next Generation Plan EU, la logistica meridionale non deve limitarsi a essere strumento di coesione e di crescita interna, ma anche strumento d’influenza sui paesi che si affacciano sul Mediterraneo centrale, e l’Italia non può rinunciare al suo ruolo di vetrina dell’Europa per discutibili ragioni di politica interna, oltretutto sprecando un’occasione unica per realizzare quella maggiore coesione territoriale che l’Italia persegue dai primi anni d’oro della Cassa per il Mezzogiorno.
È in questa prospettiva che va vista la necessità di intraprendere il percorso verso il “Meridionalismo degli anni 2000”.
Il compito di qualsiasi governo, ma anche di un partito responsabile — che, mentre persegue specifici valori ideali, deve porsi come obiettivo egualmente primario il benessere generale – non può essere solo quello di esistere o di sopravvivere, ma deve avere l’ambizione di puntare a un nuovo livello di sviluppo della società in cui opera.
In questa prospettiva, è preoccupante che la quota di PNRR, che nelle originarie intenzioni della Commissione era di quasi l’80%, vada riducendosi a una quota ben inferiore al 40%, mentre la netta riduzione della quota d’infrastrutture destinate alle estreme regioni meridionali adottata con la discutibile motivazione che la locomotiva del Nord avrebbe finito per trainare i vagoni del Sud, avrà conseguenze macroeconomiche che travalicano gli ambiti regionali, e non è neppure certo che sarà considerata accettabile dalla Commissione.
Non solo perché si rinunzia a perseguire alcuni valori essenziali del moderno liberalismo (riduzione delle diseguaglianze personali incolpevoli, affermazione delle pari opportunità territoriali), ma anche perché in tal modo si rinunzia alla possibilità di rinnovare il tessuto produttivo captando e trasformando i flussi mercantili provenienti dai paesi mediterranei e da quelli più lontani che attraverso il Canale di Suez giungono nel Mediterraneo e che proprio qui dovrebbero trovare gli scali adeguati per la trasformazione di materie prime e per il successivo percorso dei prodotti finiti.
La versione italiana del PNRR non sembra procedere in questa direzione, e non serve giustificarla con l’atavica incapacità progettuale delle Regioni e dei Comuni del Sud, quando basterebbe ovviarvi utilizzando i poteri sostitutivi che la Costituzione già prevede (art. li 117 e 120).
E dunque, proprio in armonia con gli obiettivi dell’Unione, andrebbe perseguito un modello in cui la logistica meridionale diviene strumento di coesione e di crescita anche per la manifattura del Nord, così da dare modo a quest’ultima di aprirsi ai mercati dell’Africa, il continente del futuro, come ha da tempo compreso la Cina, che diverrà presto, se già non lo è. Il grande competitore economico dell’Europa.
Trasformare il lento convoglio italiano in treno superveloce non è impossibile, e l’Europa ha messo a disposizione le risorse per farlo, secondo una strategia mai osata prima, mentre la globalizzazione nella quale siamo immersi, come ha rivoluzionato vecchi equilibri e creato nuove ingiustizie, offre anche la possibilità di essere utilizzata per risvegliare le speranze di un Meridione in perenne attesa di una forza politica in grado di ridargli dignità e orgoglio.
In questo compito Democrazia Liberale si sente particolarmente impegnata, perché il nostro obiettivo, sul piano politico, civile, economico e sociale, è quello di modernizzare l’Italia, tutta, quella che in gran parte lo è già, e quella che invece ancora non lo è.
E solo allora potremo finalmente affermare a testa alta che il nostro sarà divenuto un grande Paese europeo, non solo in termini geografici, pronto a prendere il posto primario che gli spetta nel contesto delle altre grandi nazioni dell’Europa.
XIII. La politica energetica e la transizione ecologica
Volendo allo stato prescindere dall’emergenza energetica che già si profila per via dell’aggressione russa all’Ucraina, che con la necessità di ricorrere a tutte le fonti energetiche disponibili per fronteggiare la penuria di approvvigionamenti che subiremo a partire dall’autunno, e mentre non possiamo non prendere atto con soddisfazione che il Governo Draghi si è mosso in modo intelligente e tempestivo per diversificare le fonti energetiche, resta il fatto che il tema di una nuova politica energetica è forse il più essenziale tra quelli che le forze politiche e il Governo del Paese dovranno affrontare nella prossima Legislatura per una politica energetica “a regime”.
La modernizzazione del Paese necessita di un nuovo approccio alla politica industriale nel naturale contesto europeo, la cui architrave principale è rappresentata dalle filiere energia e ambiente, che un tempo erano distinguibili mentre oggi sono divenuti cicli economici assolutamente convergenti.
La diffusa sensibilità ambientale verso i cambiamenti climatici e le scelte radicali dei grandi operatori economici hanno prodotto negli ultimi anni una drastica inversione di rotta: gli sforzi civili, industriali, tecnologici e finanziari si sono concentrati sempre più nel passaggio dall’economia lineare a quella circolare.
A livello globale, constatiamo che la dirigenza politica è stata bypassata dall’influenza della grande finanza, per un verso, e per altro verso dalle spinte popolari, essendo mancate scelte tempestive e coerenti rispetto alle evidenze scientifiche: basti pensare al sostanziale fallimento del protocollo di Kyoto.
Da molti anni, anche in Italia la politica si è ogni volta interpellata sul da farsi, ma sempre in termini di contrapposte scelte ideologiche o elettorali, in una materia che invece impatta fortemente sulla vita quotidiana d’imprese e famiglie; al tessuto produttivo è venuta così a mancare una visione d’insieme, necessaria per orientare investimenti e scelte strategiche di lungo periodo, e ciò anche a dispetto di tante competenze che nel Paese c’erano e che hanno finito per alimentare una fuga dei cervelli che ci ha impoverito, mentre ha arricchito a nostre spese altre economie.
In mancanza di una bussola, quale dovrebbe essere un serio Piano Energetico Nazionale, la prua del Legislatore ha perso la direzione dell’innovazione, trascurando la visione d’insieme sul futuro delle filiere strategiche: è quindi necessario uscire dalla logica di corto respiro fatta d’interventi a singhiozzo, investimenti produttivi disomogenei, ritardi e scarsa attenzione al supporto delle transizioni ecologica, energetica e digitale.
E’ arrivato il momento in cui un soggetto politico che s’ispira alla Democrazia Liberale deve darsi l’obiettivo di “fare accadere le cose”, promovendo la formazione di ecosistemi industriali in asse con una pianificazione di lungo periodo, per il rafforzamento delle reti d’impresa e per generare efficaci flussi di export anche al di fuori del settore manifatturiero, nel quale l’Italia già eccelle..
Non riusciremo ad attrarre investimenti esteri, e vanificheremo anche i programmi d’intervento pubblico e privato se non sapremo riformare profondamente il quadro normativo e regolatorio, ovvero la distribuzione delle deleghe in materia di permitting di nuovi progetti, rendendo veloci e trasparenti i processi autorizzativi, senza di che i migliori business plan non riuscirebbero a superare neppure il livello della bancabilità; da questa situazione d’incertezza e confusione normativa nascono i ritardi e le perplessità sulla concreta allocazione delle risorse del PNRR.
Il supporto sistemico all’innovazione e al trasferimento di nuove tecnologie all’interno delle realtà industriali più energivore e dal maggior impatto ambientale non può più essere un lumino che episodicamente viene acceso, ma dovrà diventare il cardine di una politica energetica mirata all’efficienza produttiva e alla salvaguardia dei beni pubblici essenziali del territorio e dell’ambiente.
L’attuale assetto di organizzazione delle strutture statali e dei suoi operatori di mercato contrasta visibilmente col grande spazio di opportunità che si è aperto con il Green Deal europeo – pari a circa 1.000 miliardi di € – nelle sue diverse declinazioni (PNRR, Next Generation Eu, etc….), anche considerando l’amplificazione generata da ulteriori flussi di capitali basati su criteri ESG di player privati europei e non, che potrebbero apportare ulteriore linfa per finanziamenti, sia in equity sia a debito, sul mercato italiano delle infrastrutture, dei servizi, della manifattura, delle tecnologie, delle start up, della ricerca applicata.
Sarà quindi necessaria una significativa revisione nell’organizzazione degli Enti di ricerca e delle Università, oggi prevalentemente autoreferenziali e impermeabili al mondo del lavoro ed è prioritaria una revisione dei meccanismi di selezione e carriera dei ricercatori e dei docenti universitari, in funzione di una simbiosi con le competenze di specialisti e manager d’azienda.
Al contempo, va ampliato e facilitato sul piano amministrativo-autorizzativo lo spettro di applicazioni delle fonti rinnovabili di energia (geotermia, idroelettrico, biomasse) il cui maggiore e migliore sfruttamento ne permetterebbe la programmabilità, insieme a quelle tipicamente non programmabili come l’eolico ed il solare, mentre andrebbe reimpostato il grande tema della mobilità attraverso investimenti, tecnologie e soluzioni differenziate grazie ai nuovi sistemi di propulsione e ai nuovi biocarburanti, mentre va proseguito il percorso verso la ricerca delle fonti rinnovabili del futuro e dei programmi che potrebbero condurre al nucleare di quarta generazione.
Per dare, quindi, una scossa al Paese e un chiaro indirizzo ai suoi operatori economici, il comparto energia dovrebbe vedere una forte implementazione nella:
- sicurezza degli approvvigionamenti energetici in stretta concertazione europea, con l’Italia in un ruolo attivo di proposte che ne valorizzino la centralità geografica nel Mediterraneo, potenziale grande fonte energetica del futuro;
- integrazione delle reti (es.: le dorsali elettriche trans-nazionali in accordo al 3° pacchetto energia della EU) e potenziamento delle infrastrutture di trasporto di commodityalternative ai gasdotti (es.: impianti di rigassificazione LNG);
- accelerazione nella diversificazione delle fonti energetiche, con un sensibile incremento del mix delle soluzioni adottabili in virtù delle caratteristiche e del posizionamento del territorio italiano.
D) LE DIECI SFIDE MONDIALI PER DIFFONDERE LA SOCIETA’ LIBERALE.
Riteniamo che il quadro generale di un’azione politica organizzata di stampo liberale debba rifarsi alle sfide liberali proposte nell’Agenda Liberale per il XXI secolo di Oxford, come confermate e aggiornate nel Manifesto di Andorra del 2017, ritenute prioritarie e fondanti per una moderna società liberale, e che qui di seguito sintetizziamo:
1) La sfida per allargare la democrazia.
La democrazia liberale è ormai largamente accettata come modello globale per l’organizzazione politica, ma solo una minoranza di Stati hanno adottato istituzioni di democrazia liberale. Regimi autoritari ed élite militari che usurpano il potere, abusi di potere statale per motivi di parte, elementi criminali che influenzano il governo, arrampicatori che sfruttano le speranze e le paure della gente: tutto ciò blocca il cammino verso la Libertà.
Noi vogliamo invitare tutti i governi e tutti i popoli a:
- favorire nelle relazioni internazionali i governi che osservano le regole dei diritti umani e gli istituti della democrazia liberale;
- abolire in tutto il mondo la pena capitale;
- rafforzare lo Stato di diritto e promuovere la buona amministrazione nel quadro di strutture compiutamente democratiche;
- indirizzare la spesa pubblica verso l’investimento sociale e assistenziale, destinato ad alleviare la povertà;
- limitare la vendita di armi e di mezzi di repressione ai regimi non democratici, e valorizzare il registro delle Nazioni Unite sulle armi convenzionali;
- combattere la corruzione, il crimine organizzato e il terrorismo;
- promuovere mezzi di comunicazione di massa liberi dall’interferenza dei governi o delle industrie che abusano della loro posizione dominante;
- educare alla tolleranza per realizzare una società più democratica
2) La sfida contro la violenza e per la governabilità globale.
In un mondo pieno di conflitti, uno dei compiti più difficili è trovare i mezzi efficaci per prevenire la violenza. Un mondo sempre più interdipendente richiede anche che gli Stati cooperino tra di loro per promuovere un ordine internazionale sicuro, sostenibile ed equo. Il crimine transnazionale, le malattie incurabili e le epidemie, l’inquinamento ambientale e la minaccia di alterazioni climatiche pongono impegni addizionali per la cooperazione tra gli Stati. I liberali si devono impegnare a rafforzare la governabilità mondiale tramite le Nazioni Unite e la cooperazione regionale.
3) La sfida per una democrazia migliore.
Noi riteniamo che si debbano ulteriormente allargare gli spazi democratici per andare incontro alle aspettative delle società più evolute e per proteggerle dalle disillusioni prodotte dai governi rappresentativi. I cittadini meritano miglior accesso all’informazione, più efficaci controlli parlamentari sul potere esecutivo, maggiori possibilità di essere parte attiva nella vita pubblica e di porre domande ai loro governi. Il principio di sussidiarietà deve essere pienamente rispettato, in modo da dare la massima autonomia alle regioni e alle comunità locali. La strada migliore per dare pieni poteri a ogni cittadino è un efficace decentramento politico attraverso l’autogoverno delle comunità.
4) La tensione tra l’autogoverno e i diritti umani.
L’autogoverno, o più precisamente lo Stato sovrano, può entrare in conflitto con la libertà individuale e con i diritti umani. I regimi autoritari, ma anche quelli semplicemente oligarchici, abusano del principio di sovranità per ostacolare gli interventi in aiuto di coloro ai quali la libertà è stata negata. I liberali insistono nel dire che i diritti umani sono indivisibili e universali, e non dipendono dai diritti di cittadinanza di uno specifico Stato, o dall’appartenenza a un particolare gruppo etnico, sociale, sessuale, religioso o politico. La comunità internazionale dovrebbe stabilire adeguate sanzioni contro i governi che rifiutano di osservare i principi di una Società Aperta.
5) La sfida contro la povertà e l’esclusione sociale.
La povertà, la disoccupazione e l’emarginazione sociale rovinano la vita degli uomini e specialmente di donne, bambini e anziani, e rappresentano il maggior pericolo per la società civile. La povertà genera disperazione e la disperazione genera estremismo, intolleranza e aggressività. Il problema centrale nel fronteggiare la povertà è come fornire a ciascuno i mezzi per combatterla da sé e vincerla con le proprie forze. Noi chiediamo una politica attiva che offra opportunità per l’educazione e il lavoro, che dia assistenza a chi non è autosufficiente, che si fondi sul raccordo tra provvedimenti pubblici e privati. Le istituzioni pubbliche e le strutture assistenziali devono essere il più possibile flessibili e amministrate localmente, mirando a promuovere la responsabilità individuale e a corrispondere alle domande dei singoli.
6) La sfida dello Stato minimo.
L’antica erronea credenza secondo cui è affare del governo organizzare la felicità del popolo sta andando in crisi in tutto il mondo. In molti Paesi industrializzati, sistemi mal diretti di sicurezza sociale e di redistribuzione minacciano di crollare, mentre i bilanci statali dilatano un debito pubblico che grava sulle generazioni future.
Nei Paesi in via di sviluppo, i tentativi di promuovere la crescita economica esclusivamente o in gran parte con azione pubblica sono destinati al fallimento a causa del sovraccarico dei governi e del soffocamento dell’iniziativa privata, unico fattore in grado di produrre un reale sviluppo sostenibile.
I liberali riconoscono che la capacità dei governi è limitata, che i “grandi governi” e la crescita della spesa statale sono essi stessi minacce serie alla società libera, e che la limitazione del campo d’azione dei governi e la diminuzione della spesa pubblica devono avere quindi la priorità.
7) Il bisogno di un nuovo patto tra le generazioni.
Noi registriamo le tensioni tra le pressioni immediate della domanda e dei consumi e gli interessi a lungo termine della comunità e dell’ambiente, per i quali devono essere coinvolti i governi, come garanti della società. Noi cerchiamo un nuovo patto tra le generazioni, riconoscendo i benefici che i consumatori e i cittadini di oggi hanno tratto dagli investimenti di ieri e le responsabilità di cui devono farsi carico nel mantenere e rafforzare l’ambiente naturale, i tesori culturali, i beni pubblici e il capitale sociale a vantaggio delle future generazioni. I prezzi dovranno comprendere i costi sottesi dell’inquinamento e dello sfruttamento delle risorse naturali.
8) La sfida per un progresso scientifico e tecnologico e per l’innovazione digitale.
Noi accogliamo con favore le opportunità economiche e sociali offerte dalle nuove tecnologie e dall’innovazione scientifica, ma riconosciamo anche la necessità di un pubblico esame critico del loro impatto potenziale e del loro cattivo uso, e il bisogno di regole nazionali e internazionali. Il principio di prevenzione dovrebbe governare tutti i settori dell’attività umana. Ciò vale soprattutto per la minaccia di cambiamenti climatici, per la quale l’umanità si deve applicare subito. Sono urgentemente necessarie convenzioni e scadenze obbligatorie per la riduzione del consumo dei carburanti fossili.
Il consumo deve essere mantenuto al di sotto delle capacità rigenerative dell’ecosistema. Tutte le sostanze chimiche, genetiche e meccaniche e tutti i prodotti industriali devono essere testati prima del loro utilizzo commerciale. Noi guardiamo con favore anche alla rivoluzione delle comunicazioni, che offre nuove occasioni di promuovere creatività, decentramento, autonomia e iniziativa individuale.
I liberali insistono sulla pluralità dei canali di comunicazione, che si formano attraverso la competizione in un mercato non condizionato da interessi extra giornalistici.
L’informazione, le reti di trasmissione e le altre strutture di comunicazione devono essere largamente accessibili ed essere affiancate da sistemi aperti ai produttori, ai consumatori e alle istituzioni di interesse pubblico.
9) La sfida per la creazione di un mercato aperto.
Le società aperte hanno bisogno di mercati aperti. Una società liberale, aperta e tollerante richiede un’economia di mercato. Libertà politica e libertà economica vanno di pari passo. Grazie al mercato delle idee e delle innovazioni, e grazie alla concorrenza per la ricerca delle soluzioni più appropriate, l’economia di mercato crea un progresso dinamico che fornisce la migliore opportunità per una via indipendente. Grazie al basilare principio della proprietà privata e alla legislazione antimonopolistica, i mercati aperti generano iniziativa privata e risorse economiche per l’assistenza sociale.
La regolamentazione burocratica del mercato e il protezionismo sono perciò barriere per nuove iniziative e nuovi lavori nei Paesi in via di sviluppo come nel mondo industrializzato. Al fine di raggiungere uno sviluppo ecologico e sociale sostenibile, si dovrebbe dare più rilievo alla tassazione del consumo di energia e di materie prime piuttosto che alla tassazione del lavoro. Senza un tale cambiamento i problemi ambientali e la disoccupazione continueranno ad aumentare.
10) La sfida per lo sviluppo globale.
Governi corrotti e autoritari, Stati e società deboli, disoccupazione, impoverimento, analfabetismo, sovrappopolamento: tutto ciò contribuisce al degrado ambientale, genera flussi di emigranti e rifugiati e provoca rivolte contro l’ordine polito e sociale. E’ nell’interesse a lungo termine del mondo sviluppato incoraggiare il progresso umano e dare assistenza allo sviluppo economico nei Paesi poveri. Questa è anche una responsabilità morale. Poiché i mercati aperti e globali sono lo strumento migliore per diffondere la prosperità sia nei Paesi ricchi che in quelli poveri, i liberali dovranno attirare con forza l’attenzione, e dovranno farlo al meglio, sulla loro ferma convinzione che il mercato libero, fornendo le migliori opportunità alle economie deboli, è la via più sicura per sconfiggere la povertà nel mondo. La resistenza contro il protezionismo economico rimane quindi un impegno chiave dei liberali.
A queste, che sono le sfide classiche per avvicinarci all’ideale di una Società aperta, al suo interno e nei rapporti internazionali, che abbia stabilmente acquisito gli ideali del liberalismo, si accompagna purtroppo oggi la sfida mondiale per affrontare l’emergenza sanitaria causata dalla pandemia da Covid19 ancora in corso, per il cui superamento occorre che tutti recepiscano e osservino il nostro precetto costituzionale che considera la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, rifuggendo da pregiudizi antiscientifici e addirittura complottisti che stanno avvelenando ile relazioni tra una parte dei cittadini di ogni paese e le istituzioni.