LA MOSTRA SU BERLINGUER, FRA CELEBRAZIONE E QUALCHE APPROPRIAZIONE
di Giuseppe Gullo
Il Comune di Roma dedica in questi giorni una mostra a Enrico Berlinguer dal titolo “I luoghi e le parole” in occasione del centenario della sua nascita e dei quarant’anni dalla morte. Il ricordo dell’ex Segretario del Pci si snoda in due grandi padiglioni dell’ex mattatoio, da tempo adibito a spazio espositivo, ed è organizzato, oltre che dal Comune Capitolino, dal Pala Expo e dall’associazione Berlinguer, mentre è finanziato dalla Presidenza del Consiglio. L’iniziativa è meritoria soprattutto se darà l’avvio a simili commemorazioni per i più importanti uomini politici che hanno contribuito a fare della nostra Repubblica un grande Paese democratico. E’ auspicabile che a questa mostra ne facciano seguito altre dedicate, cito senza ordine di priorità né di cronologia, a De Gasperi, Don Sturzo, Malagodi, Merzagora, Nenni, Pertini, Andreotti, Craxi, Togliatti e altri ancora.
I curatori, nella presentazione, mettono in evidenza le diverse sezioni nelle quali si articola la mostra, da quella affettiva a quella più propriamente politica dentro il Pci, nell’Internazionale Comunista, nel Paese e in Parlamento, fino alla tragica fine dopo un comizio a Padova nel 1984. Non era obiettivo della mostra dare un giudizio politico su Berlinguer. Questo è compito degli storici e più modestamente dei commentatori politici. L’esposizione, se ha un limite, ha quello di essere agiografica. Ingigantisce gli aspetti migliori di una politica che ha avuto innegabili meriti, mentre glissa su aspetti altrettanto importanti, ma anche discutibili e criticabili.
Nella vastissima documentazione fotografica affissa ai muri o installata con effetti scenografici in grandi pannelli pendenti di alcuni metri, non vi sono immagini che si riferiscono alla repressione sovietica in Ungheria e in Cecoslovacchia e neppure agli incontri con Ceasuscu e agli altri capi dei Paesi satelliti dell’Unione Sovietica ad eccezione del Segretario della Repubblica democratica tedesca. Non mancano invece le foto con Fidel Castro e Ho Chi Min, né quelle della partecipazione come componente e poi come capo delegazione ai congressi del Partito dell’URSS. Certo non poteva essere esposto tutto se si considera che Berlinguer, per citare Pajetta, si iscrisse giovanissimo alla Direzione del Pci e ne fu Vice Segretario dal 1969 e Segretario dal 1972 alla morte. Solo Togliatti prima di lui ebbe all’interno del Partito, retto da un rigidissimo sistema di “centralismo democratico”, un potere così forte e un consenso altrettanto ampio.
Non vi è dubbio che il merito principale di Berlinguer fu la rottura con Mosca consacrata nell’intervento tenuto al Congresso del PCUS del Febbraio 1976 ed esplicitata nell’intervista a Gianpaolo Pansa nella quale riconosceva i valori della democrazia liberale come assolutamente preminenti e irrinunciabili rispetto a quelli promessi e non realizzati nella Rivoluzione del 1917 e traditi in tutti i Paesi nei quali il socialismo c. d. reale ha assunto il potere. Il contestuale, sebbene tardivo, riconoscimento della garanzia che rappresentò per le Democrazie occidentali l’alleanza del Nord Atlantico (NATO) fu una scelta epocale per un Partito la cui classe dirigente era stata educata a Mosca che l’aveva abbondantemente finanziata con montagne di rubli.
In politica interna un grande tazebao indica come conquiste del Segretario del PCI, e quindi del Partito, una serie di leggi approvate dal Parlamento dal 1969 in poi. Ne cito alcune: 1970, attuazione delle Regioni a Statuto Ordinario, Statuto dei Lavoratori (su cui però il PCI si astenne), cessazione degli effetti civili del matrimonio; 1972, obiezione di coscienza; 1975, Riforma del Diritto di Famiglia; e poi, 1981 con l’abrogazione del delitto d’onore e l’anno dopo con le norme di attuazione dell’articolo 18 della Costituzione che sancisce il divieto delle associazioni segrete.
Si potrebbe continuare a lungo. La conclusione sarebbe la stessa e cioè. Per un verso, l’autocelebrazione, e per altro verso, l’autoattribuzione di paternità anche per leggi come per la legge sul c. d. divorzio, che fu opera del socialista Fortuna e del liberale Baslini, o come lo Statuto dei Lavoratori, che fu opera dei socialisti Brodolini e Giugni, la legge Brodolini-Giugni e sulla quale, per la verità, il PCI non andò oltre l’astensione.
Una mostra dopo quarant’anni dalla morte del protagonista non può essere propagandistica ma deve riferire ciò che è stato, vale a dire la capacità delle forze progressiste e libertarie di superare unitariamente, con uno schieramento vasto e diversificato, la resistenza del mondo integralista clericale nel caso del divorzio, e della parte più arretrata del mondo imprenditoriale nel caso dello Statuto dei Lavoratori, resistenze che furono superate col contributo determinante dei partiti laici e cattolici allora presenti in Parlamento.
Su un altro versante la mostra suona uno spartito che tende a coprire qualunque altro suono. La diversità del PCI rispetto a qualunque altra formazione politica. Il sostantivo usato, “diversità”. in realtà assume nel contesto della mostra un significato diverso da quello letterale. Non significa tanto “non uguale, diverso”, quanto migliore, di qualità più elevata. Berlinguer ne fece un mantra riferito alla questione morale, non potendo prevedere né immaginare come e quanto la Storia si sarebbe incaricata di smentirlo col compagno Greganti; ma già il “togliattismo” si alimentava di quel riferimento a una superiorità intellettuale che, come in tutte le famiglie, contava su elementi di grande rilievo accanto a tanti che avevano imparato la lezioncina a memoria e la ripetevano più o meno bene e con convinzione. Accanto a questo prendeva corpo la vulgata per cui l’essere comunista era sinonimo di capacità intellettuali, sino al punto di teorizzare la regola di “nessun nemico a sinistra” e il mantra del “compagna che sbaglia” anche quando si era dato alla lotta armata.
Per un non comunista come me, che ha sempre ritenuto di militare nel campo progressista, restano esempi della doppia morale purtroppo ancora praticata del c. d. “brufolo in un viso liscio e senza rughe”. La mostra del mattatoio, in questo senso, non è uno specchio. Riflette un’immagine artificiale non quella vera. La ricostruzione della scrivania di lavoro del Segretario a Botteghe Oscure con alle spalle la bandiera Italiana, del PCI e dell’Internazionale comunista, ne rappresenta l’acme.
fonte Foto: Wikimedia Commons – Group de -Besanez – CC BY-SA 4.0 Deed