IL DEBITO PUBBLICO*
di Guido Di Massimo
Il debito pubblico era altissimo, e altissimo era il costo degli interessi che bisognava pagare per trovare chi comprasse i Buoni del Tesoro emessi per coprire il debito. I debiti li avevano fatti per il bene del Paese i governi che si erano succeduti. Erano debiti di scambio: elargizioni economiche da una parte e voti di gratitudine dall’altra. Solo in questo modo il governo riusciva a governare e gli elettori riuscivano a vivere con quel po’ di benessere, che è un diritto inalienabile da tutti acquisito al momento del concepimento. Ora il debito cresceva su sé stesso auto-alimentandosi con gli stessi interessi con cui doveva essere mantenuto.
Purtroppo per curarlo della sua voracità e del suo gonfiarsi si affidarono ai cosiddetti contabili, persone grette e miopi, ragionieri incapaci di spaziare oltre i quattro conti che hanno imparato alle elementari. Testardi e fissati con i bilanci non hanno un minimo di fantasia; sono menagramo e minacciando fallimenti pretendono la frettolosa decisione di diminuire il debito pubblico. Ma diminuirlo come?
Si poteva spendere di meno e risparmiare sulla spesa dello Stato? No, perché il benessere andava mantenuto; in caso contrario il governo sarebbe caduto e questo era inaccettabile.
Si poteva combattere l’evasione fiscale? No, perché senza evasione e lavori in nero l’economia sarebbe andata a rotoli.
Si poteva ricorrere a una buona dose di inflazione? No, perché la schiavitù dell’euro imponeva una stabilità assurda ma inevitabile.
Si potevano eliminare i cosiddetti enti inutili che mangiano soldi in cambio di nulla? No perché non esistono enti inutili: per chi ci campa sono utilissimi.
Si poteva vendere qualcosa dei beni dello Stato, delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni? No, perché bisognerebbe toglierli a Stato, Regioni, Provincie e Comuni, inimicandoseli.
Si potevano aumentare le tasse? No, anche se era quello che si faceva “quatti quatti” dicendo che stavano diminuendo; ma l’aumento non bastava.
Si poteva giocare al lotto? No, e nessuno ha mai capito perché “no”.
La serie dei “no” non finiva mai e i contabili, fissati col bilancio, non mollavano e tirarono fuori una loro proposta: la tassa sul patrimonio, volgarmente detta “patrimoniale”. Dicevano che avrebbe risolto radicalmente il problema.
Ma qualcuno, che non stava più sulle spine, esplose così:
“Ma perché combattere il debito pubblico che è stato l’unico punto fermo della storia d’Italia? L’unico collante della Nazione? L’unico punto sul quale governati e governanti hanno trovato convergenza e reciproco sostegno? Quante crisi di governo ha evitato il debito pubblico? Il debito pubblico merita rispetto! Cosa succederebbe se il debito pubblico sparisse? Il costo economico del debito pubblico lo conosciamo: sono i pochi spiccioli di interesse che bisogna pagare a quei parassiti che comprano i nostri Buoni del Tesoro per campare alle nostre spalle. Ma il costo sociale del “non debito pubblico” o della sua diminuzione quale sarebbe? Quante limitazioni dovremmo affrontare!!?? A quanto benessere dovremmo rinunciare? Quanta disoccupazione in più? Quante vacanze e quanti telefonini in meno? Quanti campi sportivi in meno? Il debito pubblico non va ridotto ma aumentato: è la nostra unica ricchezza. Ce la vogliono togliere? Noi resisteremo. Il debito pubblico è nostro e ce lo teniamo. È un debito sovrano e quindi appartiene al popolo sovrano. Guai a chi ce lo tocca!!”
*tratto dall’ultima opera di Guido Di Massimo, “Il cane col papillon” (edizioni Robin), per gentile concessione dell’Autore