IL PRESIDENTE VENUTO DA LONTANO
di Giuseppe Buttà
Ho preso in prestito questo titolo dal libro – Giorgio Napolitano. Il Presidente venuto da lontano – curato da Marzio Breda, ‘quirinalista’ di lungo corso, tempestivamente pubblicato dopo la scomparsa di Giorgio Napolitano e talmente ricco di agiografia da poter eguagliare quella che si è sentita ai suoi ‘funerali laici’, ma ‘di stato’, celebrati addirittura nell’aula/tempio di Montecitorio.
Non so se Napolitano fosse dotato di senso dell’humor ma, da buon napoletano, egli certamente avrebbe sorriso delle cose che noi abbiamo dovuto sentire e si sarebbe divertito se avesse letto le poetiche parole che un commosso cronista ha scritto sul ‘Corriere della sera’ parlando di quell’appuntamento che un establishment ammutolito si era dato per salutare l’ex Presidente defunto: «quella tensione si scioglie quando prende la parola la nipote … è come se la linfa ricominciasse a fluire nell’aula … con tutta la potenza severa dell’evento di Stato». E dire che la nipote aveva parlato solo dei cartoni animati, dei gelati offerti dal nonno e del privilegi di cui aveva goduto come nipote del Presidente come, per esempio, quello di venire presentata addirittura alla regina Elisabetta.
Abbiamo letto pure pagine, elegiache, scritte da Paolo Franchi, ex comunista d’antan, che si aprono con un ossimoro che dice tutto – «il comunista che si scoprì liberale» – e finiscono con un ‘auspicio’ – «Forse è venuto il tempo di spiegare perché non possiamo non dirci liberali» – che pare si sia inverato così tanto che, ormai, non c’è ex comunista che non si dica liberale – così costringendo i ‘vecchi liberali’ a cercarsi un altro nome – o che non disdegni nemmeno di dirsi socialdemocratico – nome che prima, da comunista, riteneva sinonimo di socialfascista.
Il figlio di Giorgio Napolitano ha ricordato, con grande emozione (ma qui non ci vogliamo fermare sui passaggi strappalacrime e applausi come il seguente: «Ricordo che in prima elementare lo ritrassi in un disegno accompagnato dalla scritta ‘Mio papà fa il deputato al Parlamento’. Lo ritrassi alla scrivania con la penna in mano … per 50 anni l’ho visto in quella posizione»), l’insegnamento impartitogli dalla vita politica del padre e da lui riassunto nelle parole che suo padre stesso aveva detto di sé: «ho combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate». La ‘causa comunista’?
Un epitaffio più azzeccato di questo non saprei immaginarlo; ma dobbiamo chiederci se battersi per una causa sbagliata non sia di per sé una ragione sufficiente per non riconoscere a un tal ‘gladiatore’ la qualifica di ‘eroe positivo’. Dobbiamo pensare infatti che se – battendosi così intelligentemente e appassionatamente come gli è stato riconosciuto dalle prefiche che ne hanno tessuto l’elogio – fosse riuscito a far prevalere la sua ‘causa sbagliata’, egli avrebbe provocato un danno irreparabile all’Italia, al suo Paese.
Fare una battaglia per una causa è da Don Chisciotte. Ma, come si sa, questi si batteva per cause giuste, anche se poi se la prendeva con i mulini a vento; potremmo allora dire che chi si batte per una ‘causa sbagliata’ è un ‘Don Chisciotte al contrario’?
Giulio Napolitano ha infine aggiunto che suo padre, il Presidente, «non sopportava la demagogia, lo spirito di fazione, la riduzione del confronto politico ad urlo ed invettiva». Già; ma ci chiediamo come egli abbia potuto sopportare Pajetta al suo fianco o i calci nel sedere che Togliatti promise a De Gasperi o il compagno Kruscev che sbatteva la scarpa sullo scranno del Palazzo di vetro.
Quanto al titolo di difensore delle istituzioni siamo disposti a concederlo a Napolitano per l’attaccamento che dimostrò per quella che fu l’istituzione – il suo partito, il PCI – che ha fedelmente servito negli anni staliniani/togliattiani e krusceviani/brezhneviani/berlingueriani e che non lasciò mai – nemmeno quando, nella sua autobiografia, dice di aver cercato «via via di correggere gli errori» – o meglio la lasciò solo apparentemente, quando quel partito cambiò di nome senza però ‘sciacquarsi in Arno’.
Egli era l’ultimo sopravvissuto della nomenklatura che, negli anni repubblicani, ha retto le sorti di questo partito. E Napolitano si è identificato con queste sorti a tal punto che, dopo la sua morte, il rinato giornale che fu del suo partito, l’Unità, si è affrettato a lanciare l’appello perché non venga sepolta insieme a lui l’eredità lasciata dal partito comunista, costituita non da posti da spartire bensì dal ‘gioco di idee’ con cui si dilettava questa nomenklatura: «un partito straordinario, decisivo per gli equilibri e lo sviluppo dell’Italia, fondamentale nella crescita delle masse popolari». Da notare che Sansonetti, autore di questo appello, si compiace del fatto che a usare il termine ‘masse popolari’ fosse proprio questa nomenklatura da lui adorata, ma sorge il dubbio che egli forse non comprenda che la ragione per cui questo termine veniva adoperato altro non era che l’elitismo totalitario – o, quantomeno, ‘populista’ – dell’avanguardia del proletariato.
Anna Finocchiaro ha detto che «Napolitano scelse il PCI perché era il partito che aveva combattuto più duramente il fascismo e perché si mescolava con il popolo»; ma l’ex ministra comunista-pds non ha chiarito se ha inteso dire che questa scelta di Napolitano fu dettata solo dall’antifascismo e non anche da una convinta adesione alla dottrina e alla prassi del comunismo; detto così nasce il dubbio – che, a onor del vero, mi è stato instillato dalla spiritica interpretazione del giornalista Cazzullo il quale era convinto che «il fantasma del comunismo si aggira[va] sulla cerimonia laica … fino all’intervento di Anna Finocchiaro» – che l’oratrice volesse dire appunto che Napolitano non fu mai veramente comunista, come Walter Veltroni il quale s’iscrisse al PCI ma che ha giurato di non essere mai stato comunista.
Il dubbio non siamo in grado di scioglierlo perché sappiamo che, da un lato, fino al 1943, Napolitano fu un convinto ‘gufista’ e, quindi, non si batteva contro il fascismo imperante e, dall’altro lato, che, negli anni di Budapest e di Praga, egli non mostrò alcun dissenso dalla linea filosovietica seguita dal PCI – come invece fece allora qualche suo compagno di partito, per esempio Antonio Giolitti, il quale condannò tanto l’intervento armato dei sovietici quanto la linea di supina subordinazione a Mosca seguita da Togliatti & co. Al contrario, in sintonia con Togliatti, Napolitano fu, come ricordano sia Franchi che Breda, «tra coloro che rispondono polemicamente a Giolitti» dicendo, tra le altre cose, che l’Armata Rossa, schiacciando a Budapest la ‘controrivoluzione’, aveva contribuito a salvare la pace nel mondo (per Praga, Napolitano produsse invece una nota di “grave dissenso” da Mosca nel quadro però di una sempre fraterna amicizia).
Non sembri irriverente verso la memoria dello scomparso ma mi sembra opportuno ricordare che l’avvento di Napolitano nelle alte sfere del PCI avvenne proprio nel Congresso comunista del dicembre 1956. Fu l’intervento sulla questione ungherese a qualificarlo subito per il ‘politburo’: piacque tanto al ‘migliore’ che questi fece eleggere Napolitano nel ‘comitato centrale’ del partito dal quale credo non sia mai uscito.
Di queste parole sulla ‘controrivoluzione’ Napolitano farà una semi-ammenda quando gli vennero rinfacciate dopo che era stato eletto Presidente della Repubblica; lo fece con parole arcane, tipiche del suo eloquio tra il burocratico e l’accademico, che tentavano di gettare su quel suo ‘raptus’ più che la luce un velo pietoso: disse che quelle parole erano la conseguenza «dell’ottica distorta della scelta di campo del PCI … la verità è che vedevamo e sentivamo poco le grandi questioni di principio – libertà e democrazia – che erano in gioco nel giudizio sui fatti d’Ungheria».
Possiamo allora pensare che tra i comunisti italiani non vi fosse molta dimestichezza con tali principi? Perché, infatti, non possiamo accettare il tentativo di Napolitano di ridurre la questione solo alla ‘scelta di campo’ in favore dell’avversario dell’alleanza di cui fa parte l’Italia – il che era già grave – perché una tale scelta era forse la conseguenza del fatto che, in generale, i comunisti sentivano poco quelle «grandi questioni di principio».
Del resto, per tornare alla ‘scelta di campo’, fino alla dissoluzione dell’URSS nessuno dei fedeli del PCI poté vantare i galloni di atlantista o di europeista e lo stesso Napolitano li indossò tardivamente. Sicché il povero Paolo Gentiloni si è trovato a mal partito e, come spesso gli capita, è scivolato sul bagnato ma rimanendo tutto d’un pezzo quando, per l’ufficio che attualmente occupa, gli è sembrato di dover presentare nella sua orazione il pedigree europeo di Napolitano: «salutiamo un grande riformista, per lui l’Europa è sempre stata la via maestra: questa via, la tua via, cercheremo di seguirla sempre».
Subito prima Gentiloni si era pure esibito in un duplice elogio funambolico: «salutiamo un grande presidente, un simbolo della credibilità e della forza delle istituzioni della Repubblica e lo facciamo stretti a lei, presidente Mattarella, che di questa credibilità e forza è espressione».
In effetti, le istituzioni di cui è stato responsabile, in primis la Presidenza della Repubblica, Napolitano le ha usate appunto con forza, come un re: da questo punto di vista dobbiamo riconoscere che la dignità regale, attribuitagli chiamandolo re Giorgio, gli si attagliava benissimo non solo per la regalità del suo portamento ma, soprattutto, per la concezione autocratica che egli ebbe di questa istituzione e che, sicuramente, sarebbe stata la concezione egemonica del potere imposta al nostro paese se la ‘causa sbagliata’, per la quale Napolitano si batté, avesse trionfato.
Non è dunque un caso che, negli ultimi anni, i poteri del Presidente della Repubblica si siano allargati oltre i limiti segnati dalla Costituzione: le costituzioni, anche la più belle del mondo, possono essere distorte – la costituzione sovietico-staliniana del 1936 ne è un esempio preclaro – e Giorgio Napolitano non mancò di farlo almeno in tre modi.
In passato, il Quirinale è stato offuscato solo da qualche soubrette, da qualche sospetto di affarismo o, al massimo, dall’infame linciaggio subito dal Presidente Leone “per mano dell’avanguardia giornalistica di un gruppo di potere aspirante al regime”; la prima esondazione oltre gli argini costituzionali si ebbe con l’imposizione, che non trovò grande resistenza nel Parlamento o nella Corte Costituzionale, di un’interpretazione del potere di nomina dei senatori a vita nel senso che ciascun Presidente potesse nominarne ben 5: per fortuna, tale interpretazione, palesemente fuori dallo spirito oltre che dalla lettera della Costituzione, venne in seguito lasciata cadere, se no oggi avremmo un Senato con un numero spropositato di benemeriti della patria.
Poi venne la dottrina del governo del Presidente – supportata dal parere dei ‘costituzionalisti di corte’ – che fece giustizia dei ‘governi balneari’ e promosse al rango di governo di ‘salute nazionale’ quello che altro non era che puro trasformismo: Scalfaro l’usò con disinvoltura; nel 2011, Napolitano l’applicò con coerente e sistematica determinazione fino alle dimissioni del governo di Silvio Berlusconi e alla nomina di Mario Monti prima come senatore a vita e poi, per buon peso, come Presidente del Consiglio.
A questo proposito dobbiamo dire che Il lutto repubblicano proclamato da Gianni Letta ci è sembrato una sorta di foglia di fico con la quale questi ha cercato di coprire la ragione per cui non avrebbe parlato di ciò che ha diviso Napolitano da Berlusconi. In realtà – sebbene qualche giornale (v. ‘Repubblica’) abbia voluto interpretare le parole di Letta come una smentita della teoria del complotto che sarebbe stato tramato nelle alte sfere italo-europee – le reazioni per esempio del vicesegretario del PD, Provenzano – il quale a questo proposito ha detto altezzosamente che «le distanze restano» – provano che le parole di Gianni Letta non sono piaciute al PD e non tanto perché auspicano che il chiarimento tra i due possa avvenire nell’aldilà, sotto il fascio di luce celeste che li sta abbagliando, quanto perché quelle parole non smentiscono nulla ma, al contrario, fanno intendere che qualcosa ci deve pur essere stato; insomma che ci furono «difficoltà e incomprensioni che sembravano insuperabili».
Forse Letta si riferiva alle dimissioni forzate di Berlusconi, che aprirono la strada al governo ‘montiano’ del Presidente? o, forse, anche alla condanna definitiva del Tycoon in Cassazione?
Dopo ancora, Napolitano fece sapere a Renzi che la nomina dei ministri è cosa del Presidente della Repubblica, sia pure dopo avere ascoltato i nomi proposti, flebilmente, dal Presidente del consiglio incaricato: dottrina che il suo successore continua a seguire anche lui confortato dal parere che i ‘costituzionalisti di corte’ non mancano di affinare.
Non parliamo del ruolo che Napolitano si accaparrò durante la crisi libica del 2011 né possiamo dire nulla della sua inclinazione a interferire anche nella lotta tra le correnti dell’ANM in seno al CSM e dei suoi buoni e influenti rapporti con gli alti magistrati giudicanti se non richiamando la testimonianza di Luca Palamara – che, da presidente dell’ANM, era un frequentatore delle sacre stanze – e dell’ex magistrato Luigi De Magistris, il quale afferma che, nel suo trasferimento dalla procura di Catanzaro a quella di Salerno, vi fu lo zampino di Napolitano: «Il vero elemento inquietante e inquinante» – dice De Magistris – «è il coinvolgimento pieno del Quirinale. Un coinvolgimento decisivo e ancora più indegno perché, da presidente, era sia garante della Costituzione che presidente del CSM».
Possiamo supporre che nulla di tutto ciò – che anche chi lo giustifica riconosce essere stato debordante dai limiti dei suoi poteri – sarebbe stato permesso non dico a un Cossiga che, per molto meno, fu minacciato d’impeachment dal PCI, ma nemmeno a un Luigi Einaudi: ipotesi che però non è verificabile dal momento che mai a nessuno dei due – entrambi di formazione politico-culturale ben diversa da quella di Napolitano – sarebbe saltato in testa di poterlo fare. Né possiamo condividere la conclusione cui giunge Antonio Carioti nel suo saggio secondo il quale il ‘presidenzialismo di fatto’ sarebbe una «risorsa importante» per far fronte sia alle carenze strutturali della costituzione sia alla debolezza della politica registratasi negli ultimi 30 anni. Non siamo d’accordo perché le costituzioni non possono essere cambiate ‘di fatto’ e perché l’attivismo quirinalizio ha a mio avviso contribuito molto a indebolire la politica non solo per aver favorito il trasformismo ma anche instillando sfiducia nell’elettorato, al quale per troppe volte è stata negata la parola.
Napolitano ha poi superato se stesso quando nominò due ‘accolte’ di saggi – saggi per aver avuto trasfusa la saggezza di cui il Presidente è dotato d’ufficio: la prima di ‘facilitatori’ con il compito di redigere un programma per il futuro governo, che era ancora nella mente del Presidente; l’altra per stilare un vademecum di riforme costituzionali, una sorta di gestazione per altri (o GPA) cioè per il Parlamento.
Il garante della Costituzione pensava forse che, in questa qualità, dovesse assumere oltre che l’iniziativa di dettare i programmi al governo, anche quella di indirizzare la riforma della costituzione? (ma, su questo punto temo di non essere in sintonia con il cardinal Ravasi il quale, invece, attribuisce a questa fantasiosa «nomina dei ’saggi’, incaricati di presentare al Parlamento idee e proposte di revisione della costituzione», il valore di «suprema prova di saggezza data da Napolitano», una prova tale da dargli titolo all’empireo: «I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre»).
Santo subito? Domanda che viene suggerita non tanto dal firmamento evocato da Ravasi quanto dall’assonanza tra il sottotitolo misterioso del libro di Breda – ‘il presidente venuto da lontano’ – e la frase simpatica pronunciata dal Papa polacco: «lo hanno chiamato di un paese lontano».
fonte Foto: Wikimedia Commons – Roberto Ferrari – CC BY-SA 2.0 Deed