IL PARTITO SOCIALDEMOCRATICO CHE IL PD NON HA VOLUTO ESSERE
di Giuseppe Gullo
Nonostante le grandi difficoltà che deve affrontare in politica estera e interna, e le evidenti insufficienze che manifesta quotidianamente soprattutto in alcuni settori strategici, secondo tutti i sondaggi la destra al Governo mantiene una salda maggioranza nelle intenzioni di voto degli italiani. Nella stessa misura sull’altro fronte, l’opposizione non solo non fa passi in avanti, come sarebbe logico attendersi in presenza di una controparte in affanno, ma annaspa in un perenne stato confusionale e di comportamento ondivago e contraddittorio. Cercare di comprendere le ragioni di questo fenomeno è il primo necessario passo per individuare una possibile strategia che abbia come obiettivo l’eventuale ribaltamento dell’attuale rapporto di forza.
I partiti che si oppongono al Governo non sono omogenei e, per quanto si sforzino, non riescono e forse non possono trovare un comune terreno d’intesa sui programmi e sulle proposte su cui contrastare l’azione del Governo. La storia dei partiti conta e molto. Il PD è l’erede legittimo del PCI e dei cambiamenti molto profondi che l’hanno portato a governare il Paese esprimendo il primo Presidente del Consiglio proveniente da quel partito, D’Alema (1998-99), e il primo Presidente della Repubblica eletto anche per un secondo mandato, Napolitano (2006-2015), da sempre schierato dalla parte dell’ortodossia, com’è avvenuto anche in occasione della repressione armata in Ungheria, e poi divenuto leader dell’ala migliorista. Con l’elezione alle più importanti cariche dello Stato dei post-comunisti si era così realizzata concretamente la fine della conventio ad excludendum in forza della quale il PCI, pure forte di una rappresentanza che in alcune occasioni ha superato il 30%, era costantemente escluso dal Governo centrale per ragioni di politica internazionale che sono rimasti validi fino alla dissoluzione dell’URSS.
Questa svolta epocale non ha cambiato né migliorato il Paese, come sarebbe stato naturale attendersi. Le ragioni sono molte ed è lavoro degli storici approfondirne le cause. Ciò che appare sufficientemente certo è che gli eredi del più grande partito comunista dell’Occidente non costituivano una classe dirigente e di Governo in grado di guidare il cambiamento nella democrazia che il Paese aspettava. Vi era in molti ambienti interni e internazionali il convincimento che questa nuova classe dirigente chiamata a governare, non compromessa con la passata gestione del potere, fosse in grado di cambiare e modernizzare il Paese. Così non è stato. Il partito diverso di cui parlava Berlinguer, anche a proposito della questione morale, non era tale e quando si è trovato nella necessità di navigare in mare aperto ha smarrito la rotta e non è stato più in condizione di ritrovarla. Né è stato capace di riconoscere apertamente gli errori commessi e la necessità della trasformazione in senso socialdemocratico come effetto della storica e inappellabile sconfitta del socialismo reale. Non hanno mai voluto riconoscere apertamente e con spirito di autocritica che avevano avuto ragione coloro che si erano battuti per la salvaguardia dei principi democratici da Einaudi a Merzagora, da Malagodi a Saragat e Nenni fino ad arrivare in tempi più recenti a Craxi, Zanone e Moro. Hanno rifiutato di schierarsi dalla parte della politica nel momento in cui essa è stata sotto attacco da parte di un coacervo di forze di cui la Procura di Milano era la testa d’ariete.
Ancora oggi fa specie sentire distinguo e giustificazioni su fatti che la Storia ha dichiarato veri e propri crimini dei regimi comunisti e vedere atteggiamenti di appiattimento verso incursioni indebite dell’ordine giudiziario. Non s’intende qui sostenere che vi sia un rapporto di causa-effetto tra queste carenze obiettive e l’ascesa della destra nel gradimento degli elettori. Una destra, è giusto dirlo, che non ha espresso e non esprime una classe dirigente di caratura internazionale e neppure nazionale se ci guardiamo intorno ed esaminiamo senza paraocchi chi oggi ci governa. Tuttavia, un contributo negativo, in questo senso l’hanno certamente dato. Gli eredi del PCI hanno alle spalle una grande storia e molti valori ai quali riferirsi e in primo luogo la Costituzione alla quale hanno dato un importante contributo i costituenti provenienti da quell’area. Rispetto ad allora, oggi prevale la tattica, la miopia politica del giorno per giorno. Nel frattempo uno dopo l’altro cadono tradizionali roccaforti emblematiche del buon governo delle sinistre e l’intero quadro istituzionale si colora di scuro. Quando subentra la confusione mentale, l’incertezza e il tatticismo si finisce nel caos.
È quanto accade al PD targato Schlein che rinnega il garantismo in tema di giustizia, le battaglie sui diritti civili, l’attenzione al mondo del lavoro e alle categorie più indigenti, e invece strizza l’occhio ai fautori del movimentismo e dell’antagonismo, in nome di una ricerca ad ogni costo di un’alleanza politica di chi opera in modo del tutto diverso e persegue obiettivi contrastanti e antitetici. Le alleanze debbono avere denominatori comuni, non possono essere determinate solo dalla necessità di fare fronte unico. Così operando si ottengono due risultati entrambi negativi: si perde comunque, e si dà anche la sensazione all’elettore di ricercare alleanze “innaturali” che sbiadiscono l’identità a scapito di scelte populiste e qualunquiste. Cosa si aspetta l’elettore di sinistra che vive con sconcerto la stagione della destra post fascista al Governo? Con tutta umiltà, auspicherebbe una dichiarazione mai fatta in trent’anni di riconoscimento di un cammino difficile e tormentato, ma necessario, che ha portato a fare propri valori e principi che molti anni prima venivano rinnegati e demonizzati; e quindi vorrebbe l’individuazione di pochi argomenti concreti e realizzabili sui quali impegnarsi fino in fondo, serietà e sobrietà nei comportamenti e nelle azioni, conoscenza dei problemi, realismo e concretezza. Non si può dire a parole di volere cambiare la legge elettorale e non fare nulla perché ciò accada, anche promuovendo un referendum abrogativo dell’attuale legge elettorale, o almeno sostenendo le tante iniziative giudiziarie, che già ci sono, per portarla all’esame della Consulta per decidere sulla sua costituzionalità. Non possono essere lasciate nel cassetto o ferme in Parlamento le leggi sul fine vita e sullo ius soli, solo per citarne qualcuna. L’alleanza coi 5 stelle può avvenire solo su temi condivisi ed essere limitata e occasionale. Non si può mischiare il diavolo e l’acqua santa senza pagare un prezzo altissimo.