AUTONOMIA DIFFERENZIATA. NORD CONTRO SUD

AUTONOMIA DIFFERENZIATA. NORD CONTRO SUD

di Giuseppe Gullo

Un articolo di Giuseppe Buttà, su questo blog, esamina con molta attenzione i termini del dibattito in corso sull’autonomia differenziata. L’autore dà conto del contenuto del ddl approvato dal Governo e delle reazioni che ha suscitato da parte di importanti esponenti politici, e in primo luogo dei Presidenti delle Regioni. Ad eccezione di Zaia, che ha rilasciato una dichiarazione esilarante, non ho letto interventi significativi degli altri Presidenti delle regioni del centro nord, fatto salvo quello dell’Emilia Romagna che, in quanto candidato alla segreteria  del PD, è intervenuto con la mente rivolta maggiormente alla corsa delle primarie piuttosto che alla specifica questione. Per il resto leggiamo che, dalla Puglia, Emiliano lamenta la mancata conoscenza del ddl  come se si trattasse di una novità assoluta, mentre il Presidente della Campania lo contesta integralmente e motivatamente. Osserva Buttà, opportunamente, che la sciagurata riforma del titolo V della Costituzione sta già producendo effetti negativi la cui dimensione non è facile prevedere.
Per chiamare le cose con il loro nome è in atto un tentativo evidente di approfondire il solco già profondo tra sud e nord del Paese con uno strumento legislativo che dovrebbe chiamarsi invece di autonomia differenziata, “eutanasia dichiarata”.
Lo Stato unitario non ha mai avuto una politica meridionalista. Il ricco mezzogiorno è stato progressivamente spogliato delle sue ricchezze, svuotato della sua forza lavoro e condannato a fare da serbatoio e “sentina” della Mitteleuropa. Nel 1861 il reddito pro capite delle regioni meridionali era pari a quello del nord e in alcuni casi maggiore. La prima linea ferroviaria fu la Roma- Portici inaugurata nel 1839.  Dopo l’Unità gli investimenti vennero concentrati per aumentare la costruzione di infrastrutture nel settentrione e incrementare la produzione industriale e manifatturiera in quella parte del Paese anche utilizzando la manodopera a basso costo  proveniente dal sud.
Nella seconda metà del secolo scorso la politica dell’intervento straordinario è stata un fallimento clamoroso. I veri beneficiari sono stati alcuni grandi gruppi industriali del nord che hanno avuto miliardi di lire dallo Stato e, dopo avere impiantato fabbriche che hanno prodotto poco o nulla, hanno chiuso e licenziato senza scampo lasciando vere e proprie cattedrali in aree di grande bellezza naturalistica, deturpate per sempre. I casi della Fiat di Termini Imerese e della Pirelli di Villafranca Tirrena sono emblematici. Per non dire dei grandi impianti di raffinazione che hanno inquinato l’aria e il mare, distrutto zone ad alta vocazione agricola con colture di primizie, impedito lo sviluppo turistico mentre hanno creato solo poche migliaia di posti di lavoro. Mi riferisco in particolare, per stare alla Sicilia, alle raffinerie di Milazzo e di Priolo e alla centrale termoelettrica di San Filippo del Mela.
Non vi è dubbio che vi sia stata una responsabilità concorrente da parte dei Governi regionali che si sono succeduti nei, ma l’indirizzo di politica industriale è venuto da Roma ed è stato penalizzante per il Meridione. Qualcuno osserva che il mancato utilizzo a fini produttivi dei fondi nazionali e europei costituisce la prova  di un destino ineluttabile che spinge i nostri territori verso quelli dei “cugini nord africani”. Ovviamente, non nego l’esistenza di sperperi, insufficienze imprenditoriali e malaffare, ma da qui a sostenere che vi è un nord virtuoso e un sud sciupone e incapace ne corre, eccome.!
Se non era così nel XIX secolo, se, ad esempio, l’industria della seta e delle essenze in riva allo Stretto aveva creato una realtà leader nel mondo che, attraverso il porto di Messina, esportava in tutta Europa e in America, non è pensabile né sostenibile che gli uomini e le donne del Sud siano improvvisamente divenuti incapaci, inaffidabili e cialtroni a differenza dei compatrioti delle regioni settentrionali.
Altri, in modo più raffinato ma ugualmente dannoso, introducono l’argomento di una perequazione, per così dire, anomala. Chi produce di più e paga più imposte deve avere di più in ragione del maggior contributo versato. La Lombardia che ha un PIL pro capite di oltre 38.000 euro, seconda solo al piccolo Trentino che ne ha 4.000 in più, e quindi dovrebbe ricevere molto di più di Sicilia e Calabria il cui PIL si ferma a circa 17.000. Il che significherebbe, con ogni evidenza, che chi oggi ha di più otterrebbe ancora di più, mentre chi ha il 40% in meno vedrebbe rapidamente aumentare il divario.
Giustamente, a questo proposito, è stato citato l’esempio della riunificazione tedesca del 1990 e del grande sforzo con il quale, nell’arco di qualche decennio, il popolo tedesco è riuscito a colmare la differenza tra le due Germanie venute fuori dalla fine della seconda guerra mondiale, consentendo a quel paese, tornato unito, di diventare una delle maggiori economie del mondo nonostante le macerie della seconda guerra mondiale e i limiti oggettivi di territorio e di popolazione rispetto a Cina, Stati Uniti e India.
Governi lungimiranti operano per ridurre le distanze tra le diverse realtà regionali non per aumentarle. Sembra tornato di moda, in diversa forma, il vento secessionista, e, se così fosse, un forte e impetuoso vento di scirocco, naturalmente proveniente da sud, dovrebbe cacciarlo indietro insieme a tutti coloro che intendono sostenerlo.

 

 

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