Tuttavia, io credo che sia possibile individuare alcune generali linee di tendenza, che mi sembrano validamente verificabili in via generale, a prescindere dai vari contesti storici.
I riformisti sono essenzialmente coloro che, in presenza di domande provenienti dalla società, in termini via via crescenti (con la diffusione di cultura, conoscenza, mobilità sociale, benessere vissuto o ricercato, etc.), cercano di moltiplicare le risposte della politica, e se le risposte non sono compatibili con le risorse disponibili, accettano il rischio di farne derivare conseguenze fiscali (per i cittadini) e finanziarie (per lo Stato), in un crescendo che porta la tassazione a livelli insopportabili, l’evasione a livelli crescenti, e il debito pubblico a livello di default.
Tipicamente riformisti sono gli epigoni del socialismo, anche di quello democratico, che tendono a modificare profondamente le strutture economiche e politiche della società per soddisfare le domande che provengono dal basso, spesso anche da gruppi minoritari ma fortemente militanti, introducendo dosi crescenti di riforme civili e di economia pubblica, sia pure attraverso azioni graduali e progressive, che invece i socialisti massimalisti, cui i riformisti si sono storicamente contrapposti, volevano e tuttora vorrebbero rapide e totalizzanti.
I conservatori sono coloro che, nella stessa situazione, non riuscendo a soddisfare le crescenti richieste della società, provano invece a comprimerne le domande; e, almeno in presenza di istituzioni democratiche, non potendo riuscirvi attraverso il monopolio della forza (come accadeva un tempo), provano a farlo scoraggiando la partecipazione popolare (astensionismo) e marginalizzando i canali di comunicazione tra la società e la classe politica (disintermediazione).
Da questo tentativo derivano per lo più i sistemi elettorali maggioritari, che provocano il declino dei veicoli della rappresentanza politica e la loro sostituzione con meri contenitori occasionali; nascono così i parlamenti composti da personale cooptato con nomina dall’alto, l’eliminazione o la marginalizzazione degli enti intermedi, le derive leaderistiche, sino a sfociare in sistemi che mantengono la forma democratica ma che sono sostanzialmente oligarchici quando non autoritari.
Quando il ciclo risulta completato, si continua periodicamente a votare, ma, in un modo o nell’altro, il risultato non cambia, almeno sino a quando un’esplosione di rabbia popolare non riesce a spazzare via le impalcature burocratiche su cui il potere si è fondato.
In tal senso, e solo in tal senso, conservatore non è soltanto chi vuole conservare l’esistente, ma piuttosto chi tende a restringere gli spazi di democrazia, tornando in qualche modo indietro, almeno rispetto all’evoluzione veloce dei tempi, e a tal fine utilizzando modalità diverse dal passato.
In sostanza, è un modo diverso di essere reazionario, nei termini in cui si può esserlo oggi, e quindi senza una formale rottura con le regole della democrazia rappresentativa, assumendo di volta in volta diversi livelli di compressione, che in Europa si stanno manifestando in alcune nazioni dell’est, e, da qualche tempo, anche in Italia, con modalità ancora poco avvertite, attraverso l’introduzione di sistemi elettorali maggioritari che scoraggiano la partecipazione, e tentativi di modifiche costituzionali talvolta riusciti, come nel recente caso della riduzione del numero dei parlamentari.
I riformatori si distinguono sia dai riformisti sia dai conservatori, perché si propongono di conservare ciò che garantisce le libere iniziative personali, politiche, ed economiche degli individui e delle loro aggregazioni sociali, ma sono pronti anche a modificare ciò che può essere migliorato, quando si convincono che le riforme sono destinate a implementare, piuttosto che a ridurre, le libertà essenziali dei cittadini e dei corpi sociali.
I riformatori, di fronte alle domande crescenti che provengono dalla società, non rispondono semplicisticamente, a seconda dei casi, soddisfacendole tutte senza badare alle conseguenze (come farebbero i riformisti), ovvero ostinatamente ignorandole o comprimendole (come farebbero i conservatori).
I riformatori provano invece a introdurre le riforme necessarie per soddisfare le esigenze che possono essere soddisfatte senza compromettere la libertà delle iniziative individuali e sociali, ma anche senza rischiare il fallimento dello Stato, ma provano sempre a difendere ciò che ritengono essenziale per conservare alla società gli spazi di libertà che sono stati nel tempo conquistati.
In sostanza, i liberali sono riformatori perché sono, insieme, conservatori e riformisti, a seconda delle situazioni che si presentano, delle risorse disponibili, e delle conseguenze prevedibili.
Quasi 70 anni dopo, l’insegnamento che i liberali non possono che seguire è quello suggerito da Benedetto Croce nel suo messaggio al Convegno per l’unificazione delle organizzazioni liberali tenutosi a Torino nel 1951, allorché rammentò che “la Libertà si garantisce e si salva talora anche con provvedimenti conservatori, come tal altra con provvedimenti arditi e persino audaci di progresso”; e poi così concludendo: “Questi esami e queste discussioni, che si chiudono nel quadro anzidetto, sono la vita concreta del Partito Liberale, e non c’è nulla di più insulso dell’accusa che il liberalismo, non essendo di un partito solo ma comprendendoli tutti e due, non è un partito. È tanto più largo e umano, e in definitiva, più forte, quanto più è partito di centro”.